ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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THE WHISPERING STAR - Liturgia post-atomica

28/10/2015

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Sion Sono abbandona i ritmi schizofrenici, i montaggi bulimici ed esasperati di Why don’t you play in hell? e Tokyo Tribe, i melodrammi adolescenziali e disfunzionali di Love Exposure, il fiume catartico di Himizu, e forse ancor più profonda si avverte la distanza dai più classicamente Sono (per quanto faccia rabbrividire l’aggettivo) di Noriko’s Dinner Table e Suicide Club. La sua è una apparente separazione da verbosità e sovrastruttura, per spogliarsi delle maschere visive in un’opera che appare, ora, viva di plurime visioni, la più (meno?) esemplare del suo vocabolario d’autore, la più esegetica, paradossalmente immediata, chiusa, universale.
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Sono ambienta la sua muta e fragile riflessione in un futuro post-Fukushima (a onor di cronaca, disastro nucleare datato 2011), riducendo al massimo le coordinate geografiche di uno sci-fi umanissimo e rispecchiandosi nello sguardo perso e scuro di Yoko, robot dalle sembianze antropiche che smarrisce le proprie giornate – scandite in una calma arbitrarietà – azionando e calibrando una navicella che di futuristico ha poco, semi-giocattolo di una meccanicità che (non) ha imparato a dis-emozionarsi. Yoko si aggira placida come cadenzata dalle lente gocce di un rubinetto svogliato, dai pacchetti di sigarette acquistati su una terra fantasmatica e rigida di indigenza, dalle scatole bianche che consegna agli umani (una postina anacronistica in una post-post modernità) in procinto di estinguersi sul pianeta, distillato in cartoline sovraesposte e in schiumosi, ariosi quadri che simpatizzano per il geometrico. È un silenzio selvaggio, quello di Yoko, quello della morente collettività, inzuppato in proiezioni di oggetti che appaiono contenere, sopra tutti, gli avanzi, le rimanenze di affezioni che androidi e forse umani hanno perduto – gli uni per un rinsecchirsi robotico, gli altri per un sonno fisico che minaccia di dissestare gli ultimi spiri insurrezionali del sentimento.
Vige l’assorbimento in un sudario capovolto, in controluce, a dominanza di forte contrasto tra i candori abbacinanti di una fotografia qui come mai prima estetizzante e millimetrica, ricoperta di latteo e gravata da pochissimi, liberi chiaroscuri; compiuta, in esordio, da un’unica, simbolica virata al colore (del verde, del cielo, di tutto) che dischiude un incipit di tentato percorso di riappropriazione e auto-identificazione di Yoko – che presto strapperà fili e spine della sua tersa prigione – evaporando presto, ma sufficientemente da colpire, come un riflettore convulsamente acceso sulla verità e sulla possibilità di quant’era e più sarà.
​
Stracciate ad ampie mani le corse d’urgenza sanguinea e le fucilate roboanti di colore impresso, Sono ricompone, scardinando, una sorta di eziologia dell’esistenza post-atomica, ove, quasi necessariamente e quasi per caso, è necessario tornare a sentire, a credere; l’urgenza di ritrovare la convinzione di una sensazione primordiale esistita ma autonomamente cancellatasi sotto i nucleari dissesti, che scotta e ribolle ancora, ove la repressione e l’imprigionamento ora falliscono. Sono li riassorbe in modalità immaginifica nella poesia degli sguardi metaforici di un cinema che fa dell’indicatività dell’immagine il suo cardine: un mucchio di falene rinchiuse in una lampada a sospensione, a divincolarsi impazzite, e destinate anch’esse a essere liberate e a decedere per naturale carbonizzazione. 
Eppure sono lì, come un reminder, come tutti gli oggetti di cui l’opera è costellata, certamente di proustiana affinità, e sui quali si va ad operare il transfert di una potenziale emozione, quella da ricordare, rivivere, e quella nuova, da provare appena. Esattamente da qui muovono i primi fiotti al cervello, in una ri-educazione prossima alla naïveté, ove Yoko si appropria, come una sorta di romanticissima osmosi, dei medesimi oggetti di un umano che, emblematicamente, risolleva in lei sopiti interrogativi e memorie di una società sbiadita. Ed è lì, nel reiterare di una lattina calpestata, impiastricciata sulla suola di una scarpa, che si riavvolge il senso, che si avverte lo scricchiolare di un’innocenza smarrita, prima della civiltà, o soltanto dopo la civiltà: nella placidità di una distruzione. Il sentimento riaffiora nello spasmo di un raffreddore, nella sintomatologia di uno starnuto. 
​
Sono lavora su piani differenti, ma tutti ugualmente sordi, incastellati e lampanti al contempo, in un’opera elegantemente sinuosa, dalla semplicità forse essenzialmente incappiabile. L’assunto è, in fondo, per nulla originale (quello di una ritrovata fidelizzazione nei confronti del corpus emozionale tramite la visione, la manipolazione, il tramite della fisicità oggettuale), ma Sono ne fa un canto in sospensione, un sussurro, una partitura esangue, quasi per nulla interstellare, la liturgia finale di un’umanità istaminica. Al di là dei citazionismi a cui si è soliti pensare in campo fantascientifico (da Tarkovskij che viene riesumato dalla mente, francamente a inutile scopo), quella di Sono è una struttura aperta che vuole discostarsi da un catalogare di genere, avulsa essenzialmente da ammiccanti richiami extra-testuali. 
È qualcosa di una struggente bellezza, fino in fondo sfuggevole e nebulosa, la cui sonda si introietta in quella finale deambulazione osservativa che Yoko compie verso di noi e lungo l’infinito corridoio, costellato di ombre umane, ancora  essenti, sebbene riflesse. Yoko, attonita e inebriata, fissa nel suo sguardo le attività ludiche (e non) di esseri essenzialmente a lei così simili, rifiutando, come l’oggetto stesso, di trovare le parole. Come una presa di coscienza dell’attualità immanente delle cose. Qualcosa non si è perduto.
Gli eroi e le eroine di Sono non corrono più, camminano.  Pur avendo perso l’impellenza, la velocità, i colpi di testa, ripiegano in un mutismo, forse, davvero egualmente selvaggio.

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Hiso hiso boshi
Anno: 2015
Regia: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono
Fotografia: Hideo Yamamoto
Montaggio: Jun'ichi Itō
Interpreti: Kenji Endo, Megumi Kagurazaka, Mori Kouko, Yuto Ikeda
Durata: 100'

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SAD VACATION - Legami covalenti

4/1/2014

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Il giapponese Shinji Aoyama è regista, sceneggiatore, critico nonché scrittore. Il suo primo film, Helpless, risale al 1996. Nel 2011 è stato premiato con il Pardo d'oro al 64° Festival del film di Locarno, riconoscimento attribuitogli per l'opera Tokyo Park e come omaggio alla carriera. Quest'anno, sempre a Locarno, ha proposto Backwater (Tomogui), il suo ultimo lavoro. In qualità di critico ha collaborato con riviste del calibro dei Cahiers du Cinéma Japon. Inoltre è docente presso l'Art University di Tama.
Sad Vacation, presentato nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia nel 2007, è l'adattamento dell'omonimo romanzo, scritto dallo stesso Aoyama, il cui titolo si ispira al brano di Johnny Thunders, composto per commemorare la morte di Sid Vicious (lo si può sentire all'inizio del film). Sad Vacation, con Helpless ed Eureka (insignito del Premio FIPRESCI al Festival di Cannes del 2010), fa parte della cosiddetta saga di Kitakyushu, città dove il regista è nato e cresciuto.
Kenji (il sempre ottimo Tadanobu Asano) convive con il peso di un passato segnato dalla violenza e dall’abbandono. La madre se n’è andata quand’era ancora un bambino, il padre si è suicidato e l’amico Yasuo è morto. Come un fantasma, Kenji si muove a tentoni sopravvivendo ai margini della società. Sembra un vagabondo alla ricerca del nulla. Eppure così non è, poiché si prende cura di Yuri, sorella dell’amico Yasuo, e di un bambino cinese clandestino. Durante un turno di lavoro notturno (Kenji sbarca il lunario facendo l’autista), salgono a bordo della sua auto un uomo e una donna: Mamiya (Katsuo Nakamura), proprietario di una ditta di trasporti che impiega persone emarginate e problematiche, e Chiyoko (Eri Ishida), sua moglie. Kenji riconosce in lei la madre che l’ha abbandonato e inizia così a frequentare la casa dei due con lo scopo di vendicarsi e poter finalmente dare un senso a un’esistenza costruita sulla sofferenza. Non riuscirà però a portare a termine il suo intento. Forse perché il legame di sangue è il più potente dei vincoli?
Il film gira attorno a questo dilemma. Che cosa significa famiglia? Si tratta di un nucleo assegnato dal codice genetico? O famiglia sono tutti coloro che, nel corso della vita di ogni essere umano, si prodigano per il suo benessere? La trama del film non suggerisce soluzioni, ma contribuisce ad aprire nuovi e innumerevoli interrogativi.
Nel corso di un’intervista, Aoyama ha espresso il desiderio di comprendere se l’uomo sia davvero in grado di vivere in solitudine. L’incertezza, l’insicurezza sono l’altra faccia della medaglia di chi vive in una condizione (forzata o meno) di indipendenza. La voglia di libertà si scontra necessariamente con la necessità atavica di relazionarsi con gli altri. Anche per questo una componente fondamentale di Sad Vacation sono i paesaggi surreali in cui si muovono i personaggi. Come detto, il film fa parte della saga di Kitakyushu, città natale del regista, che ha voluto ambientare la storia di Kenji in un luogo a lui caro, dove gli sfondi sono carichi di ricordi della sua infanzia.
Un film profondo e commovente, che riesce tuttavia ad affrontare i dilemmi della condizione umana con ironia e lucidità.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Saddo Vakeishon
Anno: 2007
Regia: Shinji Aoyama
Sceneggiatura: Shinji Aoyama
Fotografia: Masaki Tamura
Colonna sonora: Hiroyuki Nagashima
Durata: 110'
Interpreti principali: Tadanobu Asano, Eri Ishida, Aoi Miyazaki, Yuka Itaya, Katsuo Nakamura, Kengo Kora

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KOTOKO - Tsukamoto tra lacrime e nuove carni

27/5/2013

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Ci sono film che nel percorso poetico e identitario di un grosso autore possono fungere da palingenesi rigenerante, da apripista per nuovi sorprendenti inizi. È il caso di Kotoko, premio Orizzonti a Venezia 2011, che del cinema di Shinya Tsukamoto riscopre la forza materica e la portata destabilizzante, risintonizzandosi nel solco del bellissimo Vital (2004) dopo il buono ma non eccezionale Tetsuo: The Bullet Man e i due episodi della serie Nightmare Detective. 
Non è che la vena di Tsukamoto si fosse pericolosamente assottigliata verso la meccanica riproposizione di sé, ma è parimenti vero che si sentiva il bisogno di un uragano che rifacesse piazza pulita, spazzando via la tendenza ad appoggiarsi a un passato residuale, a cose già fatte, a sentieri già battuti e consolidati. Tsukamoto necessitava di una rinascita non per sfuggire da sé e dal proprio immaginario, ma per poterlo rilanciare con una rinnovata focosità e un’assenza di sconti che facesse nuovamente gridare al capolavoro e al miracolo rivelato.
Ecco allora che Kotoko sopraggiunge come la risposta più generosa a tutte queste bisognose speranze; un film unico e pregiato, che solo una mente come quella di Tsukamoto avrebbe potuto concepire facendo leva su una così estrema connivenza di atrocità e poesia. Nell’ultimo film del regista di A Snake of June e Tokyo Fist la macellazione della carne - intesa come autolesionismo, ferita accecante, negazione di sé attraverso un dolore inflitto e calcato - coincide infatti con una spiritualità di sorprendente grazia. I due elementi danzano sul baratro della contraddizione inseguendosi di continuo, con ognuna delle due parti che in maniera incessante rincorre il suo opposto e si riversa in esso. Una natura ossimorica che innesta nel film una profonda elegia del contrasto, un nuovo anno zero e un ritrovato cuore pulsante della propria arte e del proprio cinema. 
In più, Kotoko è un abbagliante racconto di sensibilità femminile: il malessere di una giovane madre affetta da un morbo straniante e inspiegato a causa del quale è costretta a vedere la gente dissociata in due parti, una buona e una cattiva, due unità scisse che si ricompongono soltanto quando la protagonista lenisce il dramma della sua percezione frammentata con l’esercizio del canto. Un atto che coincide anche con l’unico momento privo di paura per una mater dolorosissima che, accusata di maltrattamenti e sevizie ai danni del piccolo, viene separata dal figlio che ama alla follia, ma che rischia di essere messo in costante pericolo per via delle pulsioni dissociate e perfino infanticide che albergano nella donna.
Innovando con potenza disturbante il più vecchio degli spunti strappalacrime - quello di una madre forse non all’altezza del suo ruolo ma che non vuole vedersi strappata la sua adorata creatura - Tsukamoto si mette anche fisicamente in scena nei panni di un celebre scrittore del quale la protagonista Kotoko si innamora, sfociando peraltro in un vortice di percosse, a partire da un tentato suicidio di lei per arrivare a un reciproco perseguitarsi e rincorrersi, come in un tango della disperazione e della prostrazione, resa ancor più viva da un uso sensazionale del digitale.
I fremiti dei corpi traballanti vengono a coincidere con la paura del terremoto che nel 2012 ha disossato gli animi del popolo nipponico, facendo coincidere la depressione col corrispettivo e tellurico moto del corpo. Cocco, cantautrice giapponese molto nota in patria e anche autrice del soggetto di questo film e in passato della colonna sonora di Vital, si avvinghia al suo personaggio con un’adesione spaventosa e autobiografica (ha infatti lei stessa perso un figlio): un’interpretazione mirabile, con le braccia ora mutilate in ferite a cielo aperto ora tendenti verso l’alto, impegnate nell’analgesico rimedio canterino al timore ancestrale di una catastrofe incombente; una novella, straziata Pina Bausch con gli occhi a mandorla. 
Cocco è la testa contro il muro, la lingua che lecca la ferita insanguinata del suo amato con delle forti bracciate, la segmentazione polare dei rumori che vivono nella sua testa. Il personaggio di Tsukamoto provvede ad assecondare l’essenza (cronenberghiana) del doppio della sua protagonista e da lei si lascia seviziare nel corpo, mettendosi a nudo in prima persona in una sorta di impetuoso afflato militante e abbandonandosi così a un’immersione abnegata e affascinante dentro al suo stesso film. Le ferite, non a caso, si rimarginano man mano che l’amore si fa largo e i cuori si sciolgono per davvero, non sperperando più il sangue ma lasciandolo scorrere a fiotti nelle proprie vene.
La forza visiva e metaforica è proprio quella dei Gemini inseparabili del David regista canadese che di Tsukamoto è esso stesso anima gemella, ma gli scarti della macchina da presa sono qui ben più violenti e imprevedibili, fedelmente a un’idea di cinema abrasiva e priva di sconti, incentrata sulla perversione masochistica e simbiotica. Tra allucinazione e lampi piangenti, tra radicale impeto corporale e inserto onirico, Kotoko è un film indimenticabile, da brivido, da vivere con gli occhi spalancati sull’abisso dello spirito e della carne, pervasi e illuminati dallo strazio urlante di un concerto audiovisivo irripetibile e di mortale bellezza.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Kotoko
Anno: 2011
Regia: Shinya Tsukamoto
Sceneggiatura: Shinya Tsukamoto, Cocco (soggetto originale)
Fotografia: Satoshi Hayashi, Shinya Tsukamoto
Musiche: Cocco
Durata: 90’
Uscita in Italia: --
Interpreti principali: Cocco, Shinya Tsukamoto

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LOVE EXPOSURE - L'urlo d'amore di Sion Sono

8/4/2013

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La retrospettiva quasi integrale dedicata a Sion Sono nell'edizione 2011 è stata una delle più belle idee messe in atto dal Torino Film Festival in questi ultimi anni; un'occasione clamorosa per scoprire o approfondire uno dei pochi autori realmente indispensabili nel panorama del cinema mondiale contemporaneo. Ormai assunto a pieno regime nelle grazie delle manifestazioni cinefile in ogni dove, Sono ha attirato su di sé, con pieno merito, un culto difficile da scalfire, in virtù di una carica espressiva dirompente, inarrestabile e sempre nuova. Non a caso, la retrospettiva sopra citata ha ottenuto un deciso successo di pubblico, accrescendo il numero di adepti del grande regista nipponico, presente sotto la Mole con i suoi modi di fare educati e silenziosi e un buffo copricapo di derivazione quasi chapliniana.
Tra le numerose visioni poste a beneficio di appassionati e giornalisti, si è imposta in posizione primaria la proiezione di Love Exposure, fluviale e magmatica opera lunga ben quattro ore, uscita nel 2008 e simbolicamente adeguata a rappresentare il complesso e radicale universo di Sion Sono. Un lavoro debordante, zeppo di significazioni stratificate e affascinanti, il cui recupero, per chi ancora ne fosse orfano, è assolutamente obbligato (il film è reperibile con i sottotitoli in italiano).
Riassumerne la trama è assai arduo, ci vorrebbero pagine di testo. Ci limitiamo dunque a poche parole, giusto per fornire qualche coordinata essenziale. La storia si basa sul giovane Yu, distrutto dalla morte della madre in tenera età, e negli anni successivi vessato da un padre divenuto nel frattempo sacerdote cristiano. Lasciato da una donna di cui si era innamorato, il genitore perde le coordinate con la realtà, e cerca in qualche modo di sfogare le proprie frustrazioni sul figlio, costringendolo quotidianamente a confessare presunti peccati mai commessi. Stanco di questa situazione, Yu decide di intraprendere la strada dell'illegalità, nel paradossale tentativo di compiacere il padre; impara così l'arte perversa di fotografare di nascosto le mutandine nascoste sotto le gonne delle ragazze. In seguito Yu si innamora della bellissima Yoko, e la salva dall'attacco di alcuni teppisti un giorno in cui, a causa di una scommessa persa, è obbligato ad andare in giro travestito da donna. Da quel momento Yu coltiva un amore assoluto per Yoko, ma è costretto a nascondere la sua vera identità, perché lei ha perso la testa per quella misteriosa donna che è giunta in suo soccorso. Nel frattempo Koike, rappresentante di un culto parallelo chiamato Zero Church, pone in essere un losco piano destinato a dividere ulteriormente i destini dei due ragazzi.
Quattro ore di film, quattro ore di trame e sotto-trame, colpi di scena e variazioni impreviste, sofferenze e ricongiungimenti, riflessioni incentrate sulle perversioni del sesso e bizzarri scherzi del destino. Uno sconfinato romanzo per immagini, nel quale si fronteggiano senza tregua incarnazioni di perdute moralità e sonetti dedicati all'assoluto senso dell'amore, dogmi traballanti e certezze disintegrate dal crudele incedere degli eventi, improvvise esplosioni di sangue e attimi di pura poesia sentimentale. L'autore nato a Toyokawa sceglie con coraggio di approcciarsi al Cristianesimo, religione poco praticata in un paese dove dominano Shintoismo e Buddismo, e si abbandona con invidiabile convinzione all'incedere di una narrazione che racchiude su di sé mille storie e mille eventi; Yu e Yoko s'inseguono, si perdono, si ritrovano e si perdono ancora, restano ciechi di fronte alla verità e poi raggiungono l'agognata epifania, mentre intorno a loro le certezze del mondo crollano come tessere spaesate di un domino senza più vittoria.
Voyeurismo, ruberie, scontri violenti, sette clandestine, arti marziali in strada, macchie nere nei polmoni: la civiltà impazzisce, logora le coscienze, divora il reciproco rispetto. Il delirio regala spazio all'intimità violata del sesso, le gonne delle ragazze lasciano intravedere il tesoro nascosto tra le gambe, i maschi subiscono la tortura di dover combattere l'inevitabile eccitazione, l'ascetismo talare si scioglie di fronte al gusto della carne, la (buona) Fede abbandona il terreno a vantaggio del benessere individuale. Eppure, in questa inondazione cosmica, resta ancora vivo il potere del cuore, grazie al quale, forse, sopravvivere alla lobotomia dell'esistenza.
Nonostante l'ampissima durata il tutto scorre con semplicità disarmante, in un'altalena stilistica che dondola senza sforzo dall'ironia alla tragedia, passando per le suggestioni di un erotismo stuzzicante, senza inoltre rinunciare a repentini squarci di orrore. La protagonista femminile, Hikari Mitsushima (ex cantante pop), è di una bellezza disarmante, una Musa che esprime infinita dolcezza in ogni movimento ed espressione. Le musiche, come sempre, vanno a comporre una partitura ricca e perfetta. Il finale, struggente, è il giusto ornamento per una torta saporita e gustosissima.
Love Exposure è un'opera preziosa, e in compagnia di Suicide Club, Cold Fish e Guilty of Romance si pone come una delle vette di una carriera straordinaria e sempre sorprendente. Un film-arcobaleno, nel quale assaporare infinite sfumature di colore. Un oceano di intense emozioni e radicali contraddizioni. Un enciclopedico urlo d'amore firmato Sion Sono.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Cinema dal mondo


Scheda tecnica

Titolo originale: Ai no mukidashi
Anno: 2008
Regia: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono
Fotografia: Sohei Tanikawa
Musiche: Tomohide Harada
Durata: 237'
Uscita in Italia: --
Interpreti principali: Hikari Mitsushima, Takahiro Nishijima, Sakura Ando, Makiko Watanabe

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