ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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LOCARNO 72 - Adoration, di Fabrice du Welz

17/8/2019

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​Il dodicenne Paul vive insieme alla madre, che lavora come infermiera in un istituto privato. Le sue giornate trascorrono perlopiù all’aria aperta, nei boschi intorno alla clinica, dove il ragazzo raccoglie uccellini feriti per poi cercare di curarli. Il consueto ménage si modifica il giorno in cui conosce Gloria, fanciulla problematica ricoverata in istituto a causa di disturbi mentali. Tra i due nasce subito un rapporto di grande affetto, tenerezza e complicità, anche se i loro incontri avvengono di nascosto, dato il divieto imposto a Paul di interagire con i pazienti.
​Una notte i ragazzi decidono di fuggire, insieme. Si avventurano nella foresta e cercano di far perdere le tracce, lasciando al contempo che il loro amore sbocci senza più catene né impedimenti. Inizia così un vagabondaggio tra sonni all’addiaccio, furti di barche a motore, bagni nel fiume, incontri imprevisti, rifugi temporanei, scoperta della sessualità, difficoltà e contrattempi: una fuga verso la libertà, folle e forse irrealizzabile, alla ricerca di un Eden dai contorni sfocati.
​
Il belga Fabrice du Welz si è imposto con forza all’attenzione di tutti gli appassionati di horror e affini grazie al magnifico Calvaire, uscito nel 2004; un film disperato e ammaliante, struggente e indimenticabile. La sua carriera è poi proseguita su livelli discreti, pur senza toccare nuovamente quei vertici, attraverso l’ipnotico Vinyan, il morboso Alléluia e i trascurabili Colt 45 e Message from the King, esordio americano. Dopo quest’ultima prova non esaltante du Welz è tornato a casa, nelle Ardenne, per mettere in scena la storia di un amore totalizzante tra due protagonisti di tenera età in completa contrapposizione caratteriale e simbolica.
​
Paul e Gloria sono il giorno e la notte, la pace e il conflitto, la luce bianca e la luna nera. Lui è innocenza pura, ingenuità, semplicità. Un ragazzino ispirato all’Idiota di Dostoevskij e al Candido di Voltaire, la cui vita consiste soltanto nel prendersi cura degli uccellini, nel trovare una panica beatitudine tra i profumi della natura e nel mantenere un forte legame con la madre. Una creatura angelica, con movenze paragonabili a quelle di un Santo. Lei è invece mistero, confusione, paura, tensione. Una fanciulla etichettata come “pericolosa”, affetta da paranoie e manie persecutorie, capace di vividi slanci di dolcezza ma anche di improvvise e impetuose esplosioni di collera o terrore, che ovviamente sconvolgono la mente pulita di Paul. 
Eppure, nella loro veemente contrapposizione, Gloria e Paul (interpretati dall’intensissima Fantine Harduin, scoperta in Happy End di Michael Haneke, e da Thomas Gioria, visto in Jusqu’à la garde - L’affido di Xavier Legrand) trovano un punto di raccordo, un legame invisibile agli occhi corrotti degli adulti, un sentimento profondo che devia dai confini della giovane età per farsi abbraccio universale. La loro unione esemplifica i devastanti turbamenti del primo amore, mentre la loro fuga verso una meta di improbabile raggiungimento (la casa del nonno di Gloria, a centinaia di chilometri di distanza) si pone come tentativo di abbandonare precocemente le barriere (im)poste sulla terra di mezzo tra infanzia e adolescenza, per dare anima a un qualcosa che possa donare il Senso primordiale e definitivo a una pur così giovane vita.
​ 
Presentato in anteprima a Locarno nella maestosa cornice di Piazza Grande, Adoration conferma l’indiscutibile talento di du Welz, autore che sa come insinuare a piene mani il lirismo all’interno della narrazione, senza che quest’ultima venga peraltro fagocitata dalla bellezza estetica. Il suo stile alterna con scorrevolezza macchina a mano e inquadrature fisse, piani ravvicinatissimi e campi larghi, sottolineature cromatiche e suggestioni icastiche, musiche armoniche e inserti inquietanti, lasciando confluire il cuore dello spettatore nel rituale di una passione assoluta, per la quale si è disposti a tutto. D’altronde, a ben vedere, anche lo splendido Calvaire raccontava un amore malato eppure a suo modo straordinario; lo stesso faceva Vinyan, con la cieca discesa di Emmanuelle Béart nelle viscere della giungla alla ricerca del figlio perduto; in qualche perversa maniera perfino Alléluia era un quadro dipinto con i colori di un desiderio monopolizzante.
​
Pur con qualche lacuna (il personaggio della madre di Paul, abbozzato e poi dimenticato) e alcuni sviluppi un po’ forzati, Adoration si mantiene ricco e pregevole nella sostanza. E come sempre in du Welz, l’equilibrio tra il bene e il male vacilla e sfuma, cercando di superare la pelle morta dell’umana miseria, senza riuscirci davvero. Non a caso, in uno dei dialoghi più belli del film, Paul, dall’alto della sua celestiale fragilità, dice a Gloria: “io non voglio fare mai del male del nessuno”, e lei risponde: “lo farai, vedrai. Prima o poi succede. Succede sempre”. 
​
Adoration è il ritratto di un legame vorace e di un sogno di emancipazione; è riconquista della libertà ma anche impossibilità di accettare una perdita (come ben ci spiega il guardiano interpretato da Benoît Poelvoorde); è sfida a testa alta contro l’altrui incomprensione ma anche inesorabile discesa nella palude della rovina; è, infine, la tragedia di un’unione paradisiaca destinata a schiantarsi sui muri del reale. A meno che, per una volta, la Favola possa decretare il suo trionfo. Contro ogni legge e contro ogni logica.
 
“Tu ne me quitteras jamais? Alors je t'aimerai pour toujours”

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: Locarno 72, La vie en rose

Scheda tecnica

Regia: Fabrice du Welz
Anno: 2019
Durata: 98’
Sceneggiatura: Fabrice du Welz, Vincent Tavier, Romain Protat
Attori: Thomas Gioria, Fantine Harduin, Benoît Poelvoorde, Laurent Lucas
Fotografia: Manu Dacosse
Musiche: Vincent Cahay
Montaggio: Anne-Laure Guégan

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UNE PLACE SUR LA TERRE - La scintilla rivelatrice

29/9/2014

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L'abitudine uccide. A maggior ragione quando a subirla è un'anima inquieta, perennemente alla ricerca di un'illuminazione. Così ci si alza dal letto al mattino con aspettative molto basse, e si passa ogni giornata alla meno peggio, tirando avanti fino a sera nella speranza che da un momento all'altro accada qualcosa. Qualunque cosa. Perfino vedere dall'altra parte del cortile una ragazza che tenta il suicidio gettandosi nel vuoto. Anche la tragedia può diventare spunto per una curiosità, una rivelazione, una piccola fiamma vitale. Soltanto in questo modo si può ancora sperare di (ri)trovare un proprio posto nel mondo.
Antoine è un fotografo pieno di talento, ma quasi sempre incapace di usarlo con efficacia. La sua responsabile lo sostiene da anni, ma è stufa dei rinvii, delle scadenze non rispettate, delle capacità non sfruttate. Antoine è anche un uomo profondamente solo, che non disdegna di tuffare le sue malinconie nell'alcool. Non ha relazioni, scarta i rapporti sociali e le occasioni di convivialità. Il suo unico amico è Matéo, un bimbo di 7 anni a cui fa da baby-sitter senza nemmeno farsi pagare. 
Quando un giorno sente suadenti note di pianoforte provenire da uno degli alloggi situati di fronte alla sua abitazione, l'uomo si avvicina alla finestra e inizia a spiare e fotografare l'autrice di quella musica, una misteriosa ragazza che suona Chopin toccando i tasti con uno strano mix di rabbia, dolcezza e disperazione. Sarà proprio lei a tentare il suicidio; Antoine assisterà in diretta allo scioccante evento, correrà in strada, chiamerà i soccorsi. Da quel momento la sua inutile vita assumerà nuovi contorni, grazie a un legame controverso che saprà riaccendere in lui quel fuoco ormai sopito da tanto, troppo tempo.
Uscito nelle sale francesi nell'estate del 2013, mai distribuito in Italia ma visto quest'anno nell'ambito della rassegna Rendez-Vous, Une place sur la terre è diretto con buona mano da Fabienne Godet, psicologa e documentarista al suo secondo lungometraggio per il cinema dopo Sauf le respect que je vous dois, realizzato nel 2005, con Olivier Gourmet e Marion Cotillard. Per raccontare la sua storia, ispirata a una persona reale, la regista cerca la giusta commistione tra dramma e ironia, lirismo e naturalezza, oscillando tra diverse direzioni stilistiche per portare all'attenzione dello spettatore quella che in fondo è una bella storia d'amore tra due cuori in tempesta. Lui, Antoine, artista maudit “fallito e alcoolizzato”; lei, Elena, studentessa idealista incapace di accettare i compromessi: tra loro nasce una relazione che devia dalle facilitazioni del sesso, per concentrarsi invece sul senso profondo della condivisione, intesa come possibilità di unire l'atavica tristezza e l'umoralità di entrambi i soggetti, per trovare un sorprendente quanto fragile equilibrio.
Lasciando che un alone di incertezza permei tutta la messinscena, la Godet ci mostra i dilemmi di due anime straziate che, nell'incontro/scontro di depressioni ramificate e pronte a esplodere in ogni istante, sanno scivolare verso un complesso e affascinante punto di raccordo. L'originalità caratteriale dei personaggi riesce ad annullare ogni rischio di eventuale caduta nella palude della retorica, dando invece spazio a una complicità unica, meravigliosa, sebbene destinata con ogni probabilità a non poter durare a lungo. Ma in quei giorni, in quegli istanti, in quella nuvola di tempo concessa dal destino, Elena e Antoine possono finalmente ammirare un raggio di sole che pensavano di avere ormai definitivamente dimenticato, intavolando perfino un abbozzo di famiglia (lei, lui e il piccolo Matèo) che porta nella realtà la fugace concretizzazione di un sogno lontano.
Scapestrato, disilluso, immaturo, Antoine ha il volto scavato di Benoît Poelvoorde, da qualche anno vero e proprio "uomo comunque" del cinema francofono (Coco avant Channel, Les émotifs anonymes, Rien à déclarer, Quand je serai petit, solo per citare qualche titolo). Abituato alla commedia, a cui deve la sua fama, l'attore belga non rinuncia a qualche tocco di leggerezza, ma dimostra qui ottime capacità anche e soprattutto sul versante drammatico, fornendo una notevolissima interpretazione a tutto tondo. Con lui la splendente Ariane Labed, premiata quest'anno a Locarno per la magnifica prova in Fidelio, l'odyssée d'Alice e come sempre magnetica e irresistibile. 
Une place sur la terre (reperibile online in lingua originale con i sottotitoli in italiano) funziona alla perfezione per 75 minuti, impreziosito dalle ipnotiche musiche di Philip Glass, salvo poi immergersi (letteralmente) in una radicale svolta finale di cui si sarebbe potuto fare a meno; una conclusione che lascia in dono alcune perplessità, senza peraltro inficiare più di tanto l'esito di un film capace di volare con tenerezza e lucidità tra i tormenti dell'Arte e della vita.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Regia: Fabienne Godet
Sceneggiatura: Fabienne Godet, Claire Mercier, Franck Vassal
Musiche: François-Eudes Chanfrault (musiche originali), Philip Glass, Chopin, Schubert
Fotografia: Crystel Fournier, Michael Ackerman
Montaggio: Florent Mangeot
Durata: 95'
Anno: 2013
Attori: Benoît Poelvoorde, Ariane Labed, Max Baissette de Malglaive, Julie Moulier

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QUAND JE SERAI PETIT - Ritorno all'infanzia

2/6/2013

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Mathias è un uomo di quarant'anni, con una vita normale segnata però da un passato sofferto e irrisolto. Un giorno, durante una crociera con la moglie, nota un bambino che somiglia tantissimo a lui quando era piccolo. Incuriosito, cerca di scoprire l'identità del ragazzino, e una volta tornato a casa si mette in viaggio verso il Nord, per avvicinarsi alla casa in cui il bambino vive, e conoscere lui e la sua famiglia. Un po' alla volta, l'uomo assomma una serie di incredibili coincidenze in virtù delle quali, a contatto con queste persone, gli sembra davvero di rivivere la propria infanzia. Ossessionato dalla situazione, Mathias trascura lavoro e famiglia, gettandosi anima e corpo in questa avventura surreale, ma necessaria per far pace con il proprio vissuto.
Attore molto amato in Francia, Jean-Paul Rouve realizza con Quand je serai petit la sua seconda opera da regista (dopo Sans arme, ni haine, ni violence, del 2008), ritagliandosi un doppio ruolo davanti e dietro la macchina da presa, per raccontare una storia di sentimenti contrastati, rancori sopiti, consapevolezze trascurate, indispensabili patti con il destino. Mathias deve fare i conti con una tragedia lontana nel tempo ma non per questo assimilata: quando aveva dieci anni, il padre morì per un cancro fulminante, e la madre non gli permise di salutarlo prima della sua dipartita, scegliendo di nascondere al figlio l'imminente scomparsa del genitore. Trent'anni dopo, Mathias conosce questo bambino uscito dal nulla, e scopre impressionanti attinenze con la sua storia personale. Da qui, parte un viaggio a ritroso nella coscienza, in perpendicolo tra presente e passato, attuato allo scopo di sconfiggere una volta per tutte i demoni della perdita, a costo di ribaltare ogni certezza acquisita nel tempo.
Commedia drammatica solo in apparenza, l'opera seconda di Rouve, uscita in patria a giugno 2012 e presentata in anteprima italiana a Roma e Torino durante la rassegna Rendez-Vous, si muove in realtà lungo i confini del thriller metafisico, oscillando per tutta la sua durata in bilico sulla non-credibilità degli eventi. Un terreno pericoloso e accidentato, che lascia qualche dubbio all'inizio salvo poi convincere grazie alla capacità dell'autore di tenere per mano il racconto senza perderne le redini. Come spesso accade nei lavori in cui un regista/attore racconta una storia intima, si ha l'impressione di trovarsi davanti un lavoro tanto sincero quanto ingenuo, pervaso da un'apprezzabile urgenza di scrittura che fa dell'imperfezione una nota di merito e non un punto dolente.
Coadiuvato dal piccolo e bravissimo Miljan Chatelain, da figure di contorno precise e puntuali come Miou Miou, Xavier Beauvois (regista dello straordinario Uomini di Dio) e l'amico Gilles Lellouche, e soprattutto da Benoit Poelvoorde, uomo ovunque ormai sparso come il prezzemolo in tutto il cinema franco-belga degli ultimi 3-4 anni, Rouve rischia, si mette in gioco, cerca di non travolgere l'impianto stilistico con un'eccessiva tendenza all'accumulo, e riesce nell'intento, mostrando una sensibilità non comune soprattutto nel sofferto, carezzevole e bellissimo finale.
Il piccolo/grande Mathias, uno e infinito, travalica così la dimensione adulta, per tornare all'età della scoperta, dell'innocenza, dei primi turbamenti amorosi. Insieme al suo giovane alter-ego balla con i suoi compagni in una festa di compleanno (La Boum, espressione molto utilizzata in Francia, non a caso scelta da Claude Pinoteau per il suo celeberrimo film con Sophie Marceau), e nello stesso istante compie un passo in quella corsia d'ospedale mancata trent'anni prima, per dare un definitivo senso a una vita rimasta per troppo tempo accoccolata nella dimensione dell'incertezza. Così, finalmente, tra il fulgore delle lacrime e la dignità dell'amore, si chiude il cerchio della pace.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: La vie en rose


Scheda tecnica

Regia: Jean-Paul Rouve
Sceneggiatura: Benoît Graffin e Jean-Paul Rouve
Fotografia: Christophe Offenstein
Musiche: Emilie Simon
Durata: 95'
Anno: 2012
Attori principali: Jean-Paul Rouve, Benoît Poelvoorde, Miljan Chatelain, Xavier Beauvois, Miou-Miou  

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