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IL CASO KERENES - I tentacoli di Lady Cornelia

20/12/2013

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Sigmund Freud avrebbe avuto molto materiale su cui lavorare, se avesse potuto esaminare la famiglia Kerenes, protagonista del film vincitore dell’Orso d’oro a Berlino. E questa famiglia è veramente un caso da psicanalisi, con la sua fitta rete di rapporti così semplice in apparenza eppure psicologicamente così complessa.
È notte. Barbu Kerenes (Bogdan Dumitrache) compie un sorpasso azzardato e investe un bambino. L’erede Kerenes è uno di quei rampolli viziati che rinnegano le proprie origini ma al tempo stesso le usano subdolamente in proprio favore. La famiglia farà di tutto per tirarlo fuori da una situazione che potrebbe portarlo in prigione. La matriarca, Cornelia (Luminița Gheorghiu), è una di quelle madri con i tentacoli amputati, una donna che ama il proprio figlio sopra ogni cosa. Difficile soppesare se sia stato questo invadente amore a creare in Barbu le manie, i deliri di onnipotenza, le paure e le debolezze; se sia stato l’amore materno a impedire al figlio di crescere, di farsi uomo, di comportarsi come l’adulto che è o dovrebbe essere. 
Barbu con una moglie che sua madre detesta, Barbu e l’impotenza, Barbu e il disturbo ossessivo-compulsivo, Barbu che commette un crimine e poi si rifugia sotto la sottana della mamma, salvo sgridarla se la sottana non si rivela abbastanza lunga per nasconderci la vita. Si gioca tutto attorno alla figura fragile del giovane rampollo e al suo cordone ombelicale con Cornelia. I due sono letteralmente in simbiosi, e agiscono in costante contrapposizione. Anime speculari, figure incapaci di rendersi indipendenti l’una dall’altra. Manipolativa lei, infantile lui. Tanto che risulta decisamente secondaria la figura paterna, capace di stringere accordi ma non di agire, di delegare ma non di fare. Nessuno, eccetto Cornelia, sembra capace o coraggioso abbastanza per guardare in faccia la realtà. E nessuno, inclusa Cornelia, ha un rigurgito di onestà, un barlume di coscienza.
Dal sofisticato appartamento arredato con sobrietà e stile, i Kerenes decidono la sorte di Barbu a tavolino, tra chiamate al commissariato per insabbiare incartamenti, testimoni compiacenti che si vendono per un bicchierino, discussioni su chi comprerà chi e per quale prezzo. Il bambino morto è solo la vittima di un banale, increscioso incidente. L’effetto collaterale di una svista che ci si può concedere, se poi mamma e papà risolvono il problema.
È Barbu responsabile della morte del piccolo? Certo. Era distratto alla guida? Indubbiamente. Dovrebbe pagare per ciò che ha fatto? Sì. Ma la famiglia, un vero e proprio entourage, anzi quasi una barriera di protezione tra lui e la presa di coscienza di sé come uomo adulto, lo protegge, e da subito, con una scioccante indifferenza verso la legalità, inizia un percorso di corruzione attorno al sistema. La famiglia è una tela di ragno che si tesse sopra i fatti, le persone, la società, perfino la morale. È un ritratto di famiglia (melo)drammatico, ma di più è un ritratto d’ambiente impietoso: cosa rimane di una città così selvaggiamente divisa in classi, di umanità che a dirimpetto sulla vita osservano e pensano soltanto a sé? Cosa resta della morale, o della salvezza della nostra anima, se per uscire puliti dalle proprie colpe basta pagare?
Forse questa è l’Europa dell’Est dopo il crollo del regime. Forse questa è la Romania rinata sotto l’inaspettato sole del liberalismo.
Rimanendo con l’occhio della macchina da presa costantemente dinamico ed esterno alle emozioni e alle dinamiche dei personaggi, il regista Călin Peter Netzer (anche autore dell’ottima sceneggiatura insieme a Razvan Radulescu) ci restituisce, con questo disarmante quadro di modernità e decadenza, anche il risultato della storia del suo paese. Barbu è forse anche il figlio di questa Romania, della metà benestante e potente, che come divinità dell’Olimpo decide il destino della povera gente, come della metà che arranca. La gente cosiddetta semplice, che piange la morte del proprio figlio con dignità e nemmeno chiede giustizia. Si chiude nella sua baracca, e aspetta.
Il tempo delle scuse è la catarsi necessaria e imprescindibile che deve avvenire sotto la luce fredda e naturale della povertà, della strada. Coloro cui è stato tolto si abbracciano alle persone che gliel’hanno tolto. Soffrono e piangono insieme. Parlano il linguaggio universale della maternità, della famiglia, dell’amore viscerale che spinge a superare il limite. La catarsi collettiva si compie nel perdono. 
Non una tragedia moderna, quanto la storia di un ricongiungimento tra classi sociali dagli opposti destini. Non un dramma giudiziario, infine, come vorrebbe suggerire il titolo italiano, quanto il racconto del distacco di un figlio dall’ombra materna, oltre un’impossibile liberazione dal male, dentro la pena della colpa. Una macchia indelebile.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Poziţia copilului
Anno: 2013
Regia: Călin Peter Netzer
Sceneggiatura: Călin Peter Netzer
Durata: 112 min.
Fotografia: Andrei Butica
Uscita in Italia: giugno 2013
Interpreti: Luminita Gheorghiu, Bogdan Dumitrache, Natasa Raab

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