ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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RAMS - L’Islanda e il suo grembo

15/3/2016

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​Toccante, umano, malinconico come i paesaggi che lo invadono e terribilmente appagante. Rams, film islandese diretto da Grímur Hákonarson, è tutto questo, ma incluso e perimetrato nelle atmosfere della commedia nera. Applaudito alla scorsa edizione del festival di Cannes, vincitore della sezione Un Certain Regard presieduta da Isabella Rossellini, il lungometraggio di Hákonarson mostra un lato rurale e profondamente radicato nella cultura islandese del nord, perché nella terra dei ghiacci e dei vulcani l’allevamento è parte integrante della vita quotidiana, anche odierna, e il rapporto di fedeltà tra uomini e pecore è strettissimo. 
L’Islanda, e il suo territorio, è qui teatro per una storia antica quanto moderna che si focalizza sul tormentato rapporto tra due vicini di casa, fratelli, che non si parlano da ormai quarant’anni. Il motivo, lungo tutta la durata del film, non verrà mai chiarificato. Gummi e Kiddi vivono fianco a fianco allevando le loro pecore. Le loro greggi, che derivano dallo stesso ceppo originario, sono considerate di assoluto pregio e vengono così, di concorso in concorso, premiate con i voti più alti. 
La festa per Kiddi, il vincitore di turno, viene però immediatamente rovinata poiché pochi giorni dopo la gara le sue pecore vengono trovate positive ad un virus letale che è in grado di mettere in pericolo tutto il bestiame della vallata. La speranza di salvare i propri animali è ulteriormente messa in pericolo dalla decisione del governo di investigare sulla malattia e sulla possibile decisione di macellare tutti i capi presenti.
Hákonarson descrive un micro mondo a lui familiare, poiché entrambi i suoi genitori vengono dalla campagna islandese e lui stesso, fino all’età di diciassette anni, ha passato gran parte delle sue estati lavorando nelle fattorie. Nel nord dell’Islanda l’allevamento delle pecore è parte integrante del quotidiano e della sopravvivenza della popolazione e raggiunge aspetti quasi sacrali, tanta è la devozione. Il virus, la malattia, è in Rams il vero motore della vicenda, perché mette in pericolo la vita di tutti, e costringe Gummi e Kiddi, sul finale, a un riavvicinamento a lungo atteso, un contatto umano inevitabile.
Il piglio registico è estremamente espressionista nel modo in cui gli esterni, le montagne, la vallate e le condizioni meteorologiche avvolgono le piccole e semplici storie dei protagonisti e della loro comunità. Gli interni, invece, sono piccoli, confortevoli e stranamente caldi. Proprio in questi ambienti si consumano scene la cui comicità del tutto nordica risolleva il tono altrimenti silenzioso dell’intera opera filmica. 
Uno dei due fratelli, Gummi, temendo di passare tutto il rigido inverno in solitudine, decide di salvare un piccolo numero di pecore da nascondere in una improbabile taverna convertita in allevamento. La frequente visita dei veterinari è fonte di gag comiche mai esagerate e sempre accordate al tono pacato e gentile che Rams possiede. Purtroppo uno dei veterinari si accorge della presenza delle bestie in taverna e riesce a chiamare i soccorsi. Gummi è così costretto a ricorrere all’aiuto del fratello Kiddi che, nonostante gli anni di freddezza e distacco, per l’amore della propria terra e delle proprie tradizioni si dimostra immediatamente pronto all’azione e a una rocambolesca fuga.
Da qui in poi l’opera filmica di Hákonarson si stravolge e diventa una tragedia che ha luogo nel ventre della natura islandese. Gummi, Kiddi e il loro gregge cercano rifugio al di là delle colline, un luogo praticamente irraggiungibile a causa di una tormenta che imperversa su di loro e che ne rallenta il passo. I dialoghi cessano e lo spettatore è letteralmente avvolto dall’ululato del vento che si fa sempre più potente al calare della notte. Dopo poco i due fratelli perdono contatto con le pecore, unico motivo che li aveva portati sin là su, e si ritrovano perduti tra le nevi.
Trovato Gummi mezzo morto e assiderato, Kiddi decide – e qui Hákonarson realizza una sequenza magnifica – di scavare una fossa nella neve per rifugiarsi col fratello. Finalmente i due si ritrovano insieme, nel grembo della loro Islanda, un ritorno quasi uterino che suggella un film particolarissimo dal profondo impatto emotivo.
Rams ha la facoltà di catturare e imprimere sullo schermo la peculiare cultura rurale islandese in maniera intima e introspettiva, metaforizzando pericoli esterni – la veterinaria mandata dal governo per decidere la macellazione delle greggi di pecore è danese, e rappresenta in un certo qual modo l’apertura della nazione nordica all’influenza europea, delle sue culture e delle sue leggi – per mostrare una comunità e la sua inquietudine nei confronti del cambiamento.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Hrútar
Anno: 2015
Regia: Grímur Hákonarson
Sceneggiatura: Grímur Hákonarson
Fotografia: Sturla Brandth Grøvlen
Musica: Atli Örvarsson
Durata: 93’
Uscita italiana: 12 novembre 2015
Attori principali: Sigurður Sigurjónsson, Theodór Júlíusson

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A WAR (KRIGEN) - La guerra e le sue derive morali

22/2/2016

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In corsa nella categoria Best Foreign Film agli Oscar 2016, edizione ottantottesima della celebre manifestazione a stelle e strisce, il danese A War (Krigen) è il nuovo film dell’ottimo e sempre sorprendente Tobias Lindholm. Dopo le sceneggiature di Submarino e Il Sospetto, entrambe realizzate per il connazionale Thomas Vinterberg, e la direzione del tesissimo A Hijacking, Lindholm torna alla regia di un lungometraggio; il risultato è una notevole rilettura del war movie statunitense di recente fattura, The Hurt Locker, Zero Dark Thirty e American Sniper su tutti. A War prescinde – presa di posizione forte e decisa – dal voler rappresentare lo “spettacolo” della guerra, con il fine di mettere in scena i conflitti individuali che ogni soldato porta con sé sul campo di battaglia. 
Lunghi momenti d’attesa e pochi e fulminanti sprazzi d’azione caratterizzano il film di Lindholm, un’opera che narra le vicende di un plotone danese di stanza in Afghanistan con lo scopo di preservare l’incolumità della popolazione civile. La responsabilità di tutto il reparto è sulle spalle di Claus (Pilou Asbæk), soldato tutto d’un pezzo che sta sempre vicino ai propri ragazzi ma si trova lontano, lontanissimo, da sua moglie e dai tre figli, che fanno il possibile per affrontare la vita di tutti i giorni nonostante la sua mancanza. Durante una missione che doveva essere di routine, Claus e i suoi si trovano sotto attacco e, con un uomo gravemente ferito a terra, chiamano rinforzi ottenendo un devastante attacco aereo.
Questo il punto critico che fa affondare la carriera del soldato, ma che riporta alla luce quella del padre e marito, che dovrà affrontare le conseguenze delle sue azioni davanti a un tribunale militare, per dimostrare una volta per tutte che egli aveva la piena evidenza di come Compound 6 fosse davvero un obiettivo non civile.

A War è un film diviso in due. I centoventi minuti della pellicola sono ripartiti equamente tra campo di guerra e campo processuale. Una suddivisione che crea una chiara consequenzialità tra causa ed effetto. Lindholm riesce così a rendere estremamente palese ed esplicito il fatto che le azioni militari possano avere effetti profondissimi proprio nel quotidiano; in nuce all’opera del regista danese non giace assolutamente nessuna argomentazione relativa ai crimini di guerra, quanto, e piuttosto, alle derive morali e personali che determinate scelte possono provocare.
Sul finire dello scorso anno, il Danish Film Institute ha deciso che sarebbe stato il film di Lindholm a rappresentare il cinema danese ai prossimi Oscar, scavalcando le candidature di Men and Chicken e del notevole The Look of Silence. Giudicare questa scelta, a visione conclusa, e lasciata sedimentare la pellicola nella nostra mente, appare più semplice di quanto si possa immaginare. A War è infatti un film che conferma per l’ennesima volta quanto il cinema danese e scandinavo tutto sia attento a ciò che accade oltreoceano, metabolizzando schemi e segni con lo scopo di realizzare un prodotto personale. Il film danese infatti si ispira ma tradisce il modello, annullando il possibile patto regista/spettatore, non offrendo chiarimenti e, anzi, omettendo quanto è possibile mostrare per costringerci a una negoziazione difficoltosa e incerta.
Iniziato l’iter processuale, Claus si trova a dover ripercorrere con la mente – sollecitato dal giudice e dall’avvocato dell’accusa – gli eventi che lo hanno costretto a prendere quella drammatica decisione. La memoria, non senza qualche ambiguità, lo tradisce, e noi spettatori, come lui, siamo incapaci di ricordare il punto focale della vicenda. Lindholm decide così di non ricorrere alla figura retorica chiarificatrice per eccellenza: il flashback. In questo modo la tensione verso lo scioglimento del dubbio, la sentenza finale, è un parossismo totalmente basato sulla più totale fiducia nei confronti delle verità processuali e delle testimonianze. 
La scelta di negare qualsiasi chiarificazione è, a parere di chi scrive, fondamentale per rendere A War il piccolo gioiello che è. Inoltre, la decisione di far gareggiare agli Oscar un film caratterizzato da una forma cinematografica anti-hollywoodiana potrà certamente creare qualche cortocircuito dagli esiti, si spera, inaspettati – nonostante l’ungherese Son of Saul sia l’opera da battere.
In conclusione, A War di Lindholm si presta anche a una visione e una lettura non univoca. La fruizione in sala e quella domestica saranno diametralmente opposte: la prima, basata sulla costrizione temporale immodificabile, la seconda invece con libertà allo spettatore, per quell’ “impossibile ritorno” a un punto precedente della fabula. 

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Krigen
Anno: 2015
Nazione: Danimarca
Regia: Tobias Lindholm
Sceneggiatura: Tobias Lindholm
Fotografia: Magnus Nordenhof Jønck 
Durata: 115’
Attori principali: Pilou Asbæk, Tuva Novotny, Dar Salim

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THE BOTHERSOME MAN - Tempo fuor di sesto

9/11/2015

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The Bothersome Man, Den Brysomme Mannen nell’originale norvegese, è il secondo lavoro che gode di una buona distribuzione del regista Jens Lien (dopo Jonny Wang, 2003), filmmaker che, trasferitosi a Londra nel 1990 con il sogno di diventare una rockstar, ritorna in patria dopo essersi diplomato al London International Film School.
Inedito in Italia ma presentato nei maggiori festival internazionali, tra cui Cannes nell’edizione 2006, The Bothersome Man è un piccolo gioiello di cinema grottesco e satirico che, seppur richiamando alcuni aspetti dello stile di Jean-Pierre Jeunet (Il favoloso mondo di Amélie, 2001) o di Jaco Van Dormael (Mr. Nobody, 2009) – messa in scena, forte caratterizzazione dei caratteri e paradossale sviluppo delle dinamiche diegetiche – guarda oltreoceano a lavori che si concentrano su mondi possibili ma non reali, deformazioni alla Matrix, Il tredicesimo piano, The Truman Show e molta narrativa fantascientifica e pulp. 
Andreas, ormai quarantenne, arriva in una strana città senza avere alcuna memoria del come e del perché. Dopo pochissimo tempo si ritrova a vivere in un gradevole appartamento con un lavoro d’ufficio estremamente piacevole e leggero che gli permette, senza sforzo alcuno, di instaurare buoni rapporti d’amicizia con colleghi e datore di lavoro. Anche l’amore è dietro l’angolo e Andreas va a convivere con una bellissima donna, designer di interni, in una deliziosa casa fuori città.
Dopo poco, però, la routine del lavoro e della convivenza inizia a prendere il sopravvento e tutto si trasforma in un meccanico e noioso “galleggiare” lungo giornate in cui i sentimenti sembrano latitare. Andreas, infatti, inizia a rendersi conto che c’è qualcosa di estremamente sbagliato nella gente che lo circonda: amici, colleghi e amanti sono sempre felici, o meglio, non sembrano trasparire emozioni realmente umane. L’unica chance che gli rimane è scappare da questo luogo stranissimo e assurdo.
Come per Truman in The Truman Show, il bellissimo film di Peter Weir scritto da Andrew Niccol, la fuga del nostro protagonista è impraticabile e viene puntualmente ostentata da forze più grandi di lui. Per Andreas anche il suicidio sembra impossibile, caratteristica che rende il luogo in cui si trova metafisico e intangibile, ma anche una rappresentazione perfetta di tensioni misteriose. Il suo peregrinare gli permetterà infine di incontrare un uomo che, esattamente come lui, “sente” che vi è qualcosa di sbagliato e artificiale nella città che li circonda, un agglomerato urbano futuribile che si offre geometrico e intoccabile allo sguardo degli abitanti. Questo personaggio scopre una crepa nella sua cantina, un seminterrato con pareti di roccia, una caverna di pietra da cui si può annusare un odore buonissimo arrivare dall’esterno. Questo profumo, in una metropoli in cui tutto è sciapo e finto, senza calore e senza anima, appare, se non come l’unica via d’uscita, come l’unico possibile indizio di un altrove.
The Bothersome Man mette dunque in scena una città/grotta in cui, platonicamente, uomini e donne sono costretti – alcuni di buon grado, invece – a fruire le ombre di una realtà altra. In questo “tempo fuor di sesto” – titolo di un celebre romanzo di Philip Dick a cui sarebbe liberamente ispirato The Truman Show, e citazione dall’Amleto shakespeariano – Andreas è chiamato a rimettere in ordine il proprio luogo e tempo che sono, appunto, fuor di sesto, scoordinati.
Il regista norvegese Jens Lien mischia grottesco, realismo della messa in scena e ipotesi futuribili per realizzare un film assolutamente solido e credibile. The Bothersome Man, vincitore del ACID Award a Cannes del 2006, è una visione obbligatoria per gli estimatori del cinema nordeuropeo e della fantascienza sociologica.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Den Brysomme Mannen
Anno: 2006
Regia: Jens Lien
Sceneggiatura: Per Schreiner
Musica: Ginge Avnik
Fotografia: John Christian Rosenlund
Durata: 95’
Attori principali: Trond Fausa, Petronella Barker, Peer Shaanning

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WHEN ANIMALS DREAM - Homo homini lupus

26/8/2015

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When animals dream segna il debutto cinematografico di Jonas Alexander Arnby, dopo una carriera lunga dieci anni spesa nella direzione di pubblicità televisive e videoclip musicali. L’affascinante opera prima del regista danese tinge il genere “coming of age” con i colori e le sfumature dell’horror realistico, caratteristica che si fonde in maniera esemplare con i paesaggi dello Jutland del nord, fatti di piccole cittadine, boschi e spiagge dipinte da luci crepuscolari.
In questi chiaroscuri si svolge la vicenda personale della protagonista Marie, un’adolescente che come tante e tanti affronta cambiamenti e si confronta con le aspettative e i sogni. Il futuro non è roseo, però. La comunità in cui vive è dura e chiusa in se stessa, e, soprattutto, estremamente inospitale nei confronti suoi e della sua famiglia. Il luogo di lavoro in cui viene accolta, noioso e ripetitivo, diventa un vero e proprio inferno. Da sfondo a questa routine la scoperta di uno sfogo sulla pelle che preoccupa il medico di famiglia e sembra crescere e modificarsi di giorno in giorno.
Marie, nell’azienda in cui sfiletta il pesce, è un oggetto alieno; è osservata, derisa, ma in qualche modo temuta. I solchi che sulla sua pelle continuano a crescere e a lasciare segni più profondi la portano a mettere in relazione il suo stato con quello della madre, costretta in condizioni semi-vegetative su una sedia a rotelle e regolarmente sottoposta a visite e cure mediche.
Gli esasperanti scontri con i colleghi, ormai vissuti come nemici, provocano in Marie una rottura che porta in superficie la sua licantropia, condizione/strumento che Arnby utilizza per dare forma a un impianto narrativo che ha come fine ultimo l’analisi degli equilibri sociali della piccola cittadina dello Jutland. In When animals dream, infatti, regia e sceneggiatura – a cura di Rasmus Birch – costruiscono un universo in cui l’uomo lupo del cinema horror (qui declinato al femminile nella trinità madre, compagna e figlia) funziona come metafora. Dopotutto, la licantropia si può ascrivere a qualcosa di estremamente umano: il lato oscuro e animale del sesso e della morte, la necessità di attaccare per sopravvivere. Durante la vicenda mostrata sullo schermo, Marie è portata – o meglio spinta – dalle sue pulsioni a prendere coscienza di sé e ad elevarsi al di sopra delle leggi e delle usanze della sua comunità.
Ontologizzare la diversità attraverso la propria protagonista permette al regista danese di sviluppare un discorso chiaro che si fonda su basi semplici e profondamente pessimiste: le società non si sarebbero formate grazie alla concezione comune del bisogno, al reciproco interesse e all’amore; al contrario, il fondamento della civiltà si basa sulla paura dell’altro e della sopraffazione – esplosiva, umana e bestiale –, e quindi sul suo relativo controllo, poiché l’essere umano è un lupo per i suoi simili.
Madre e figlia si rivelano progressivamente allo spettatore per quello che sono: donne forti che al di là della propria mutazione sanno cosa vogliono e che desideri hanno. Ma se la comunità ha avuto la meglio sulla prima, ristabilendo l’arcaico ordine maschile e patriarcale, Marie non sembra poter accettare la stessa inesorabile sorte.
Il film di Jonas Alexander Arnby, nonostante un interessante e riuscito sottotesto narrativo, non appare mai appesantito dalla componente allegorica che lo forgia, ma, al contrario, si muove leggero tra il genere horror e il realismo sociale che caratterizza gran parte della produzione del cinema nordico.
Opera prima si, ma di grande spessore, che conferma – se ce ne fosse ancora bisogno – l’estrema vitalità e libertà artistica che vive tutta la cinematografia scandinava.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Eurocinema, Into the Pit


Scheda tecnica

Titolo originale: Når dyrene drømmer
Anno: 2014
Regia: Jonas Alexander Arnby
Sceneggiatura: Rasmus Birch, Christoffer Boe, Jonas Alexander Arnby
Musica: Mikkel Hess
Fotografia: Niels Thastum
Durata: 84’
Attori principali: Sonia Suhl, Lars Mikkelsen, Sonja Richter

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SOMETHING MUST BREAK - Two ways to choose

23/7/2015

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Il cinema cosiddetto “nordico” è oggigiorno tra quelli più interessanti che il continente europeo sia in grado di offrire alla categoria cinefila. Seppur non in grado di competere con industrie cinematografiche ben più solide, sia da un punto di vista produttivo sia qualitativo – si pensi alla grandeur a cui il cinema francese ci ha abituati e, perché no, viziati – le recenti opere provenienti dal profondo nord stanno confermando il fiorire di un nuovo gruppo di registi e di opere che attraggono e affascinano.
Svezia, Norvegia, Finlandia, assieme ad Islanda e Danimarca, cinque paesi da sempre considerati parte di una sovra-nazione, hanno di recente visto la nascita in alcuni casi, e la conferma in altri, di autori che grazie a una oggettività contenutistica e una solida prassi filmica sono riusciti a conquistare un inaspettato successo internazionale; Baltasar Kormakur (Everest, 2015), Morten Tyldum (The Imitation Game, 2014), Joachim Trier (Oslo, 31 Agosto, 2001) e Ruben Ostlund (Forza maggiore, 2014) ne sono esempio.
Nonostante la scena norvegese sia quella in più rapida ascesa, è stato proprio lo svedese Forza maggiore di Ostlund a porre il punto esclamativo su un movimento in progressiva crescita; sempre dalla Svezia proviene un film interessantissimo che chiama e obbliga alla visione poiché in grado di concentrare qualità e caratteristiche di tutto il cinema nordico: Something Must Break.
Opera che deve il suo titolo alla sepolcrale e inquieta anima dell’omonima canzone scritta dai Joy Division (Still, 1981), Something Must Break è una storia d’amore tra due ragazzi, Andreas, eterosessuale dichiarato, e Sebastian, creatura androgina che mette in discussione le certezze del partner in relazione con se stesso e la società “Ikea-style” che ha attorno. Insieme sognano di sfuggire la noia e il rischio di diventare ciò che tutti gli altri rappresentano. In una estate in cui tutto è possibile Andreas e Sebastian affronteranno scelte che condizioneranno le loro vite per sempre.
Se, precedentemente, abbiamo accennato al fiorire di una scena di registi nuova, il film di Ester Martin Bergsmark si apre, casualmente ma non troppo, mostrando lo sbocciare di un fiore, metafora di un percorso che il protagonista Sebastian, e il suo alter ego femminile Ellie, è costretto a percorrere se vuole conquistare la piena coscienza di sé. Bergsmark, regista non nuovo a temi vicini all’ambiente LGBT, dirige un film solido affidandosi alla sua capacità di costruire inquadrature efficaci ed immagini sperimentali, e se i ralenti – pittorici e scultorei allo stesso tempo – sono figli diretti di un tardo Lars von Trier, la voglia di comunicare e di ferire sono vicini al recente Lukas Moodysson e al mostro sacro Fassbinder.
Something must break è, infatti, un film violento che non cede ai compromessi spettatoriali e alle rigide usanze della cultura svedese, ma inscena piuttosto una ribellione che tramite le urla di Andreas e Sebastian – la loro necessità di gridare il proprio dolore e sofferenza si palesa durante l’intera durata della pellicola – impone una possibile rottura con le aspettative proprie del mondo che li circonda. Come afferma Amanda Doxtater in Northern Constellations: New Readings in Nordic Cinema (C. Claire Thomson, Novrik Press, 2006) la società svedese sottosta a rigide usanze che condizionano l’agire e i modi di pensare dei suoi cittadini. Tutti i comportamenti al di fuori dell’ordinario vengono ritenuti spiacevoli, il contatto con l’estraneo – anche il vicino di casa – viene rimandato a meno che non sia evitabile, finita una festa si lascia un’obbligatoria lettera di ringraziamento nella buca delle lettere; insomma, si può affermare che la standardizzazione modello Ikea sia una struttura di falsa sicurezza su cui basare la propria vita. 
Ma essere svedese comporta anche rimandare qualsiasi discussione sgradevole, situazione da cui scaturisce una sindrome passivo/aggressiva verso la possibilità del pubblico confronto. Bergsmark riesce abilmente a mostrare questa patologia tramite Andreas, ragazzo che (rin)nega in maniera continuativa le sue pulsioni e la sua attrazione per Sebastian/Ellie. Andreas, allo stesso tempo, afferma di non essere gay oppure esplode in pianti violenti all’apice della felicità con il nuovo partner. Egli non sa come reagire nel momento in cui i suoi sentimenti trovano sentieri inaspettati che lo costringono a prendere sofferte decisioni.
Something Must Break ha la capacità di dire molto sulla realtà del paese in cui è realizzato, e ha il pregio di evolvere ma non risolversi, lasciando aperto un percorso che, come in molti film di Fassbinder, dovrà avere ripercussioni nella vita quotidiana. Inoltre, questo carattere locale e nazionale non si scontra affatto con qualità transnazionali tipiche di tutto il cinema scandinavo, mettendo in scena storie e situazioni che con oggettività acuta affrontano tematiche universali.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Nånting Måste Gå Sönder 
Anno: 2014 
Regia: Ester Martin Bergsmark
Sceneggiatura: Ester Martin Bergsmark, Eli Léven
Fotografia: Lisabi Fridell, Minka Jakerson
Durata: 85’
Attori principali: Saga Becker, Iggy Malborg

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KING OF DEVIL’S ISLAND - Fuga da Alcatraz

18/2/2015

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Nel 2014 è stato assegnato alla prigione di Bastøy il premio per l’ottima “Promozione dei valori umani e della tolleranza”, grazie alle sue politiche – naturalmente connaturate a tutto il sistema penitenziario norvegese – tese alla salvaguardia e alla riabilitazione sociale dei suoi detenuti. Ma dietro questo confortevole e rassicurante presente si cela una storia di brutalità e repressione che, all’incirca cento anni fa, sconvolse la piccola isola scandinava. 
King of Devil’s Island, film del 2010, espone i fatti legati alla grande ribellione avvenuta nel carcere nel 1915. A quei tempi, e fino al 1970, sull’isola di Bastøy era situato un importante riformatorio in cui buona parte della “cattiva gioventù” norvegese veniva rinchiusa in attesa della maggiore età o dello sconto della pena. Come si può ben immaginare, la convivenza tra prigionieri - ragazzi, a volte poco più che bambini, e adulti - non faceva che aumentare la demarcazione tra età matura e adolescenza, tra potere e penitenza.
Marius Holst, con il suo lungometraggio purtroppo inedito in Italia, rende giustizia a una delle pagine più scure della recente storia norvegese, con una ricostruzione accurata che si affida a una eccellente concertazione tra regia e gruppo attoriale, quest’ultimo guidato dal sempre ottimo Stellan Skarsgård.
Proprio all'attore svedese spetta il compito di interpretare Hakån, il rigido direttore del riformatorio, figura chiave tra i fragili equilibri che condizionano la detenzione dei giovani da una parte e la direzione dei non inappuntabili secondini dall'altra: è chiaro infatti che le guardie penitenziarie sono costrette, a loro modo, a scontare colpe o sospetti precedenti. L'isola di Bastøy diventa così un purgatorio in cui vittime e carnefici si confondono e, dovendo dimenticare il passato – esplicito a questo proposito Hakån nel suo discorso introduttivo, in cui proibisce di menzionare i fatti e le colpe che hanno portato i detenuti a scontare lì la loro pena, poiché «a Bastøy non vi è né passato né futuro, ma solo il presente» – devono fare il possibile per non collidere vicendevolmente. 
L'arrivo di Erling e Ivar, che presto devono imparare a essere chiamati C19 e C5, permette allo spettatore di capire quanto l’ostinatezza, quella di Erling, e la debolezza, quella di Ivar, possano essere la chiave di sopravvivenza o di sconfitta all'interno del silenzio e della disperazione che regnano sulle baracche che ospitano i ragazzi. Erling, che fa presto amicizia con Olav (C1) è più che riluttante a subire le angherie e i soprusi delle guardie e decide di imbastire un piano che potrebbe regalare a lui e ai suoi amici la libertà.
King of Devil’s Island presenta la lotta tra Erling e Hakån per il dominio di questa Alcatraz scandinava; la lotta per il comando e lo scontro per definire una volta per tutte chi sarà il Re di Bastøy. Ma il “trono”, che vada all’una o all'altra parte, ha comunque un prezzo troppo altro. Le istituzioni, infatti, anche in un paese moderno come la Norvegia di inizio ventesimo secolo, devono fare il possibile per difendere se stesse e la loro credibilità, anche a costo di tragiche conseguenze.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Kongen av Bastøy
Anno: 2010
Regia: Marius Holst
Sceneggiatura: Mette M. Bølstad, Lars Saabye, Dennis Magnusson, Eric Schmid
Fotografia: John Andreas Andersen
Musica: Johan Söderqvist
Durata: 116’
Attori principali: Stellan Skarsgård, Kristoffer Joner, Benjamin Helstad

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BLIND - Immaginare il reale

18/11/2014

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Conosciuto maggiormente come scrittore, grazie alla stesura delle sceneggiature di Reprise e Oslo, 31 agosto di Joachim Trier, Eskil Vogt rappresenta, assieme all’amico regista, il meglio della corrente scena scandinava. Allo stesso tempo rigoroso e rarefatto, il lavoro di Vogt riesce a perseguire un’idea di cinema introspettivo e fragile, di cui i “buchi testuali”, i silenzi e la mancanza di azione scenica sono segni distintivi. Blind – suo debutto registico – rappresenta un'evoluzione e una problematizzazione che cerca di investigare le oblique relazioni tra sguardo, conoscenza e fantasia.
L’opera di Vogt mette a nudo la nuova vita di Ingrid, ex insegnante che ha da poco perso la vista. La paura di uscire di casa e di relazionarsi con gli altri cresce, ma i suoi pensieri, immagini e suoni riempiono l’appartamento in cui è confinata, diviso con il marito Morten che si trova quotidianamente fuori casa per lavoro. Nonostante ciò, Ingrid sospetta che di tanto in tanto egli rimanga a casa, seduto sulla poltrona, a fissarla, studiarla. 
Einar ed Elin, altri personaggi che abitano l’ambigua realtà della protagonista, condividono, uno in un modo, una in un altro, certe difficoltà a relazionarsi con il prossimo e l’esterno: il primo è un assuefatto fruitore di pornografia che ama le donne con i capelli lunghi, ma è troppo timido per stringere una relazione reale e sincera; la seconda vive nel palazzo di fronte ad Einar e non ha nessuno a parte la figlioletta che, però, passa la maggior parte del tempo in compagnia del padre. Entrambi condividono una situazione di solitudine in cui Morten, marito di Ingrid, irromperà con risultati grotteschi – addirittura comici – e surrali, generando per lo spettatore un momento di comprensione.
L’opera filmica di Eskil Vogt, lontano dalla mano esperta di Joachim Trier, è personalissima e, nonostante lo scarso budget e una certa ambizione più che comprensibile per un debutto alla regia, si incentra su un possibile monologo interiore della meravigliosa e algida protagonista – interpretata da una perfetta Ellen Dorrit Petersen –, che ambisce alla messa in discussione del visibile inteso come reale. Ciò che vediamo è dunque reale? Ciò che lo spettatore osserva è altrettanto reale e portatore di conoscenza? Queste sono le domande che durante la visione vengono poste da Blind: grazie alla cecità della protagonista possiamo riflettere sulla consistenza delle immagini e sul loro valore.
«Dicono che la mia capacità di visualizzare scomparirà nel tempo, dopo che il nervo ottico si sarà atrofizzato. Voglio rallentare questo processo impegnandomi ogni giorno. Ho chiesto a mio marito se il centro commerciale è blu o bianco, […] ma non è importante ciò che è reale finché riesco a immaginarlo». Questa frase, che si chiude sulla ripresa in dettaglio dell’occhio di Ingrid, è la chiave di lettura con cui avvicinarsi al suo mondo, i suoi luoghi e i suoi personaggi. Questi ultimi diverranno lungo la durata del film chiari riflessi ed estensioni dell’immaginario e delle paure inconsce della protagonista.
Vogt gioca con la sua opera prima, mischia in continuazione le carte – sperimentando in maniera forse naif con il montaggio finale – ma realizza un film acuto e interessante, che mostra quanto ci fosse di suo nelle precedenti collaborazioni con l’amico e collega Trier e fa sperare più che in bene per il prossimo Louder Than Bombs, primo film “americano” in agenda per questa magnifica coppia.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Blind
Anno: 2014
Regia: Eskil Vogt
Sceneggiatura: Eskil Vogt
Fotografia: Thimios Bakatakis
Musica: Henk Hofstede
Durata: 96’
Attori principali: Ellen Dorrit Petersen, Vera Vitali, Henrik Rafaelsen, Marius Kolbenstvedt

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ROYAL AFFAIR - Intrighi a corte

9/4/2014

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Ricco ed elegante, ma non per questo barocco e calligrafico, Royal Affair racconta uno degli episodi più sconcertanti e curiosi della storia danese. Il delizioso film del giovane regista Nikolaj Arcel, Orso d'argento per la migliore sceneggiatura al Festival di Berlino del 2012, trasferisce in immagini i moti rivoluzionari illuministici danesi che, vent'anni prima della ben più nota Rivoluzione Francese, sconvolsero la corte presieduta dal ventunenne Christian VII.
Il giovane sovrano, eterno fanciullo, si dedica ai suoi passatempi, delegando con noncuranza la gestione del potere ad alcuni consiglieri della corona, personaggi gretti e conservatori per interesse. Costretto a prendere in sposa la cugina britannica Caroline Mathilda (Alicia Vikander), Christian (Mikkel Boe Følsgaard) trascura la propria consorte e il proprio erede preferendo la lasciva compagnia di donne la cui dissolutezza non fa che peggiorare la sua situazione. Il giovane Re è infatti sempre più distaccato dalla realtà in cui vive e la sua fanciullezza, che presagisce un'incombente ebefrenia, è motivo di preoccupazione per i ministri. La decisione di affiancargli un dottore personale è lo strumento grazie al quale viene introdotto a corte Johann Friedrich Struensee (Mads Mikkelsen), uomo di medicina, ma in segreto uno dei più importanti divulgatori delle idee propugnate dagli illuminati Rousseau e Voltaire.
A terzetto formato, tra Christian, Caroline e Johann inizia una serie di liaisons dangereuses che costringe il già mentalmente labile sovrano a una pozione di progressiva subordinazione nei confronti di Struensee, il quale, con l'appoggio anche sentimentale di Caroline, fa di tutto per mettere in pratica le nuove teorie rivoluzionarie.
Una volta nominato ministro, infatti, egli è in grado di attuare una politica liberale e umanista, promuovendo riforme dall'importanza storica: l'abolizione della schiavitù, della tortura e del carcere per molti reati minori. Ma Struensee non può certo pensare di modificare con tanta radicalità le leggi e le abitudini di una nazione senza pagare un prezzo. Nella coralità che contraddistingue il lavoro di Arcel, con le sue dinamiche di potere in cui politica è sottomessa alla fede e al rigoroso rispetto dell'estrazione sociale, i malumori non possono che trovare in alcuni consiglieri e ministri i loro portabandiera. La decisione di questi ultimi non può essere che una sola: eliminare Struensee.
Royal Affair, ispirato alle grandi pellicole epiche americane degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, è un film in costume girato in maniera estremamente moderna; proprio per questo non si esaurisce nel compiacimento scenografico e storico, ma trova la sua compiutezza nello scontro ideologico sui cui si fonda l'intreccio. Possiamo dare per assodato che l'impossibilità di accedere a un budget di grandi dimensioni abbia contribuito a convincere – anche se sarebbe più opportuno dire “costringere” – Arcel a concentrarsi su quelle scelte, peraltro azzeccate, che hanno potuto rendere Royal Affair un ottimo film e non un lavoro sofferente dal punto di vista spettacolare. 
Amori, idee e intrighi diventano, di conseguenza, i pilastri per una vicenda che fa del contagio ideologico la propria chiave di volta. Johann Friedrich Struensee è chiamato a seguire il giovane Christian, un incarico parzialmente tradito, poiché è l'intera società danese a “soffrire”. La cura? Non medicine, pillole o aghi, ma idee che possano “curare” tutte quelle ingiustizie sociali tipiche di una società iniqua e immobilista. Solo un matto come Christian può, quindi, permettere alle idee illuministe di propagarsi come un virus nella nazione da lui governata; è proprio in questo connubio pazzia/ideologia che si incontrano e si scontrano i due personaggi principali di questa equilibratissima opera filmica. 
Royal Affair, nelle sue due ore e quindici minuti di durata, affronta una delle vicende più importanti della storia danese, e lo fa contando su una sceneggiatura magistrale, in cui ogni momento è parte organica di un racconto teso a raccontare quei piccoli intrighi sottomessi alla grandezza della storia.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: En kongelig affære 
Anno: 2012
Regia: Nikolaj Arcel
Sceneggiatura: Nikolaj Arcel, Rasmus Heisterberg 
Fotografia: Rasmus Videbæk
Musica: Cyrille Aufort, Gabriel Yared
Durata: 137’
Uscita in Italia: 29 Agosto 2013
Attori principali: Alicia Vikander, Mikkel Boe Følsgaard, Mads Mikkelsen

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OMBRE NEL PARADISO - Il riscatto degli ultimi

4/4/2014

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Ombre nel paradiso (1986) è il primo episodio firmato dallo straordinario regista finlandese Aki Kaurismäki della cosiddetta Trilogia dei perdenti, che proseguirà con Ariel (1988) e si concluderà con La fiammiferaia (1989).
Il netturbino Nikander (Matti Pellonpää) si aggira in una Helsinki desolata e desolante con un camion azzurro e bianco. Raccoglie l'immondizia e fuma sigarette. Terminato il turno, beve alcolici e fuma sigarette. Un giorno, mentre fa la spesa in un supermercato, conosce la cassiera Ilona (Kati Outinen) e all'improvviso la sua squallida esistenza subisce uno scossone. Ilona nota che l'uomo ha sporcato la cassa di sangue e ha un dito tagliato: interrompe il lavoro e lo medica. Una gentilezza che colpisce profondamente Nikander, il quale decide di invitarla a uscire. 
L'unico passatempo della giovane cassiera sembra essere la dedizione al tabagismo e dunque, non avendo in agenda altro da fare, la ragazza accetta la proposta del netturbino, che si presenta all'appuntamento con uno sparuto e mal combinato mazzo di fiori. I due trascorrono poi la serata in una deprimente sala bingo finché Ilona non decide di andarsene. È l'inizio di una tormentata storia d'amore, che troverà il suo compimento soltanto dopo un lungo (e a tratti grottesco) processo evolutivo che trasformerà un uomo e una donna disperati in una coppia.
L'ostacolo principale che allontana Nikander da Ilona (e viceversa) è l'incapacità di comunicare e, di conseguenza, di stabilire e preservare rapporti sociali. Difficoltà dovuta alla solitudine, che una metropoli cupa e vuota non aiuta di certo a sopportare. Come in tutte le opere di Kaurismäki, in Ombre nel paradiso siamo lontani anni luce dallo stereotipo che erige il Nord Europa a simbolo e modello del benessere.
Privi della consapevolezza di poter scegliere un futuro migliore, i due amanti si muovono in un perenne stato d'apatia, disinteressati alla realtà circostante, limitando le proprie aspirazioni al consumo di birra e sigarette. Sarà Nikander, forse perché perdente tra i perdenti ma tutto sommato uomo dall'indole positiva, a recuperare per primo la forza del desiderio. Il coronamento del loro sogno d’amore si concretizzerà in una romantica crociera con destinazione Tallinn, la capitale dell’Estonia, a bordo di un traghetto dalla squisita fattura sovietica, decorato con tanto di falce e martello rossi fiammanti.
Kaurismäki non vuole però prendersi gioco dei suoi protagonisti, verso i quali nutre un profondo rispetto. Nikander è un uomo che non perde mai la dignità: deve soltanto iniziare a vivere, superando la timidezza e la goffaggine che caratterizzano la sgangherata relazione con Ilona, imparando a non picchiare il prossimo per farsi valere. Il percorso di entrambi passa inevitabilmente attraverso la scoperta di un nuovo registro comunicativo; non a caso Ombre nel paradiso è un film fatto di sguardi e di silenzi (splendidi i primi piani della Outinen), utili per confermare come il grottesco di cui le opere di Kaurismäki sono pervase non sia altro che un realismo poetico, necessario per raccontare luoghi e persone realmente surreali.
Sofferenza e umiliazioni non impediranno a Ilona e a Nikander di ritrovarsi, lasciare il lavoro e partire insieme. Un riscatto finale dal sapore proletario, che il regista interpreta anche come affrancamento da un impiego alienante e conquista della libertà. Poco importa quindi che la meta sia Tallinn anziché la Florida, poiché la crociera rappresenta un viaggio ben più importante, che si concluderà con la presa di coscienza di sé.
Immancabile e indispensabile, la meravigliosa colonna sonora contiene brani di gruppi finlandesi e di autori di fama mondiale (John Lee Hooker, Elmore James, Albert Collins). Un eccellente miscuglio musicale che accompagna i protagonisti nelle loro peregrinazioni quotidiane. Naturalmente impeccabili i due attori icona di Kaurismäki, Kati Outinen e il compianto Matti Pellonpää, deceduto nel 1995.
Da notare come il regista finlandese renda un bellissimo omaggio a Sergio Leone nell’episodio in cui Nikander si reca con una coppia di amici in un cinema di Helsinki per gustarsi Il buono, il brutto e il cattivo.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Varjoja paratiisissa
Anno: 1986
Regia: Aki Kaurismäki
Sceneggiatura: Aki Kaurismäki
Fotografia: Timo Salminen
Produzione: Mika Kaurismäki
Colonna sonora: AA. VV.
Durata: 76'
Interpreti principali: Matti Pellonpää, Kati Outinen, Sakari Kuosmanen, Esko Nikkari

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OSLO, 31 AGOSTO - Game Over

24/2/2014

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Phillip (Anders Danielsen Lie), giovane e dotato scrittore in procinto di ottenere una pubblicazione importante, si avvicina a una portafinestra e allunga il braccio fino ad appoggiare energicamente il palmo della mano sul vetro; l'impronta, fatta di calore e condensa, resiste per pochissimi secondi prima di scomparire per sempre. In questa breve sequenza – tratta dal suo primo lungometraggio Reprise –, composta da tre veloci inquadrature, risiede l'anima del cinema fin qui portato in vita dall'interessantissimo Joachim Trier, la cui poetica si basa su un'instabile “gioventù bruciata” che pur tentando di lasciare impronta di sé si riduce a sprecare e dissipare le proprie energie. Questa incapacità a (soprav)vivere è resa tramite personaggi appartenenti alla piccola e media borghesia, membri di una classe sociale che avrebbe tutti gli strumenti per potersi affermare o, quanto meno, per vivere in un agio privo di timori.
In Oslo, 31 agosto, del 2011, Trier si affida nuovamente all'attore Danielsen Lie per dare vita a una pellicola dal grande impatto emotivo, che si ispira liberamente a Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle e al successivo adattamento cinematografico realizzato da Louis Malle.
Anders, attualmente in un centro riabilitazione per tossicodipendenti, sta per concludere il suo percorso di guarigione; per questo motivo gli è concessa la possibilità di avere una giornata di libertà ad Oslo, in modo da incontrare vecchi amici e affrontare un colloquio lavorativo. Sui trentaquattro anni, bello, intelligente e con una famiglia benestante alla spalle, Anders è cosciente di aver sprecato buona parte della propria vita per colpa di uno stile di vita insostenibile e di avere deluso molte persone attorno a lui. Nonostante sia ancora giovane, sente che ha ormai perduto il suo posto nella società. Nelle ventiquattro ore che ha a disposizione, tra il trenta e il trentun agosto, cerca di fare un bilancio dei propri insuccessi e delle proprie speranze.
Joachim Trier situa il suo film nella capitale norvegese; Oslo diventa uno spazio in cui luoghi, rumori e distanze diventano fattori di una semiotica che tende a dividere e isolare l'individuo. Anders, anche se immerso nel magma pulsante della grande città, è solo e circondato da un silenzio metafisico che ricorda gli spazi urbani presenti nell'opera di Michelangelo Antonioni. Oslo, 31 agosto sembra infatti omaggiare un cinema europeo d'autore che, per quanto riguarda più precisamente lo stile, si approccia a registi come Bresson, Resnais e Godard; Trier afferma di «non copiare dai vecchi film, ma di sottoscriverne lo spirito, ovvero una forma libera di cinema che sappia lavorare sul linguaggio precipuo in modo da essere intellettuale ed emozionante».
Oslo, 31 agosto è un lavoro fatto di lunghi silenzi e grandi spazi in cui la macchina da presa si muove libera e segue il suo personaggio principale con ostinazione, fino a rivelarne ogni tratto somatico, ogni risata, ma anche i momenti d'abbandono. Lo stile asciutto e l'ottimo montaggio riescono davvero ad avvicinare l'opera di Trier a quel cinema la cui ricerca linguistica è tesa a produrre significato e non, contrariamente, un solipsistico compiacimento.
Il protagonista non è in precario equilibrio tra il crollo di vecchie sicurezze e l'avanzare di nuovi modelli non riconoscibili o accettati; Anders è piuttosto simbolo di una generazione cresciuta senza dover lottare per conquistare i propri spazi. Possiede certamente del talento (sa scrivere e anche molto bene), ma a causa della totale perdita di fiducia in se stesso fa di tutto per sprecarlo. L'opera del regista danese inizia con Anders che dopo aver passato la notte con una ragazza, al suo ritorno alla clinica, tenta un suicidio alquanto goffo, con cui comprendiamo quali siano le sue reali intenzioni una volta ritrovati i vecchi amici. Complice anche la totale assenza della famiglia – i genitori non sono intenzionati a incontrarlo e la sorella lo evita, facendogli però avere le chiavi di casa – Anders è solo e deve comprendere da sé il valore delle persone, degli oggetti e dei luoghi che lo circondano.
Siamo dalle parti di una generazione che, divisa tra l'accettazione e il rifiuto di una collocazione intelligibile all'interno del tessuto sociale, trova una terza via tutta imperniata sulla dissipazione delle proprie energie e capacità.
Non vi è chance di lasciare impronta di sé per chi perde fiducia nei propri mezzi. Il bravo Danielsen Lie, sul finire della splendida opera di Joachim Trier, “accompagna” il personaggio interpretato nella solitaria casa di famiglia e inizia a suonare un pezzo al pianoforte. A un tratto si interrompe e compie un gesto risolutore. Silenzio. A ritroso ci vengono poi mostrati i luoghi frequentati da Anders lungo tutto il film: non vi è alcuna traccia del suo passaggio. Solo il vuoto e, ancora una volta, silenzio.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Oslo, 31. august
Anno: 2011
Regia: Joachim Trier
Sceneggiatura: Joachim Trier, Eskil Vogt, Pierre Drieu La Rochelle
Fotografia: Jakob Ihre
Musiche: Torgny Amdam, Ola Fløttum
Durata: 95’
Attori principali: Anders Danielsen Lie, Hans Olav Brenner, Ingrid Olava

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