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JACK GOES BOATING - Cercando Philip

27/6/2014

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Jack il timido. L’autista di limousine con un’esistenza tutta intorno alle periferie: dei sentimenti, delle amicizie, delle fantasie irraggiungibili accarezzate solo per concedersi il lusso di immaginare a occhi aperti. Jack con i suoi due amici, Clyde (John Ortiz) e Lucy (Daphne Rubin-Vega). Jack che non sogna nemmeno tanto. Che si accontenta di ciò che ha, della sua passione per la musica reggae, del desiderio come utopia di prendere il largo, di nuotare, di essere il padrone della propria imbarcazione.
Jack è un tipo qualunque, con le fragilità e le insicurezze di qualsiasi uomo che è rimasto solo troppo a lungo, e che stenta ma prova a capire il senso del proprio destino.
L’incontro con Connie (Amy Ryan), organizzato da Clyde e Lucy, non dovrebbe essere quello del destino. Gli appuntamenti al buio, è noto, non lo sono mai. Ma se invece Connie fosse la donna giusta. Se anche lei fosse ferita dagli urti della vita, se fosse introversa e riservata proprio come Jack. Se Connie avesse le sue stesse fragilità, le vulnerabilità di una donna che deve solo essere amata per rinascere. E se al contempo Clyde e Lucy rivelassero le ombre del loro – solo in apparenza – perfetto rapporto. Come è strana la girandola dei ruoli, delle situazioni. Eppure quanto abbiamo da imparare gli uni dagli altri. Magari potremo tutti crescere e capire come amare veramente qualcuno, come lasciarci andare, come essere felici.
Philip Seymour Hoffman debutta come regista, in un momento in cui sembra quasi volersi prendere una vacanza dai personaggi complessi e drammatici delle sue interpretazioni a cavallo tra il 2008 e il 2010, anno di produzione di Jack Goes Boating. Dopo Il dubbio, I love Radio Rock, La famiglia Savage, è arrivato il tempo di dedicarsi a qualcosa che abbia la sua autentica forma. Un abito cucito su misura. Il film è una piccola opera di matrice teatrale, già portata nell’Off-Broadway dallo stesso Hoffman e da John Ortiz, che nella trasposizione cinematografica si ritaglia un ruolo di supporto eppure centrale ai fini della storia.
Jack Goes Boating è stato accostato da Roger Ebert al celebre film Marty di Delbert Mann, uno sleeper che a suo tempo fu capace di sbaragliare La valle dell’Eden agli Oscar del 1955. C’è effettivamente qualcosa di Marty/Ernst Borgnine in Jack, come c’è anche qualcosa di Rocky Balboa. Sono le atmosfere ai confini della vita, la tenerezza nel racconto degli ordinary men che vivono senza attese, che sorvolano le metropoli nella sospensione della realtà.
È dolce e ironico il taglio della pièce. E magari la leggerezza è dopotutto ciò che più appartiene a Hoffman, la problematicità dell’essere e delle relazioni umane viste in una chiave forse malinconica, ma mai triste. Jack Goes Boating ritorna al passato del cinema indipendente, da cui Hoffman proviene e che egli non ha mai fatto mistero di apprezzare. Il racconto è impostato sulle note del quotidiano, delle ordinarie sfortune di due adulti che hanno subito dalla vita più di quanto meritassero, e che vogliono (ma non osano) veramente sperare. Per interpretarli sono necessari attori bravi, anzi bravissimi, che conoscono la materia teatrale a menadito e che sanno come far trasparire un’emozione da un gesto, una lacrima, una parola, uno scambio di sguardi.
L’occhio di Hoffman come regista sa cogliere e valorizzare gli attori, e non potrebbe essere altrimenti, anche se manca nel colpire con una ricerca visiva più decisa, che non si limiti – come invece tende a fare – a seguire le evoluzioni dei personaggi e le loro toccanti, dolci, complicate conversazioni attorno alla vita e all’amore. Peccato per l’eccessivo tocco introspettivo, quando uno sguardo più attento all’ambiente avrebbe collegato con maggiore forza alla città moderna le frustrazioni dei personaggi. Si riserva poco spazio agli esterni, benché la fotografia regali momenti originali e coinvolgenti nel mettere insieme, proprio come un buon piatto, ingredienti eterogenei ma ottimi insieme: un po’ Hopper, un po’ Woody Allen, un po’ Kevin Smith. Azzeccata la scelta delle musiche, anche queste rigorosamente indie.
L’evento di Jack Goes Boating non è tanto scoprire se e quando Jack riuscirà a coronare il proprio sogno di felicità, ma se sarà in grado di cucinare la cena perfetta per la donna ideale. Tra metaforici voli sopra piscine statiche, fotografie come racconti di verità nascoste, stagioni che passano come foglie alla finestra, aspettiamo che il cibo sia servito e che nell’atto conviviale della condivisione ogni piccola sfumatura del cuore sia svelata. E aspettiamo di scoprire che siamo magici, umani e imperfetti. Ci consoliamo nella natura umana.
Jack Goes Boating è un film che serve più al suo autore, che non allo spettatore. È un lavoro che parla direttamente dalla sensibilità spiccata di Philip Seymour Hoffman, non dalle sue capacità interpretative o dalla sua invidiabile tecnica d'immedesimazione. È il film necessario per un attore che appare in cerca di sé come della propria arte. Non indispensabile per noi, ma per capire le corde di Hoffman. E oggi, a distanza di pochi mesi dalla sua scomparsa, è un film che ci racconta inconsapevolmente la sua anima inquieta.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: America Oggi


Scheda tecnica

Titolo originale: Jack Goes Boating
Regia: Philip Seymour Hoffman
Interpreti: Philip Seymour Hoffman, Amy Ryan, John Ortiz, Daphne Rubin-Vega
Sceneggiatura: Bob Glaudini (dall’omonima pièce)
Fotografia: W. Mott Hupfel III
Durata: 91'
Anno: 2010

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HAPPINESS - E vissero tutti felici e contenti

3/6/2013

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Se nell'universo cinematografico esistesse una qualche forma di giustizia, non sarebbe nemmeno necessario parlare ancora di quest'opera per farne conoscere l’indiscusso valore. Ma così non è. Crediamo dunque sia d’obbligo ricordare un film che nel corso dei suoi quindici anni di età è stato immeritatamente, se non ignorato, quantomeno dimenticato: lo splendido Happiness di Todd Solondz.
Una regia scomoda e una sceneggiatura fastidiosa, che raccontano una storia più attuale che mai, esigono una riscoperta e ben altri onori e gloria di quelli finora ricevuti. Perché non è mai troppo tardi per mostrare la realtà per quel che è, senza nascondere la testa sotto la sabbia (o sotto il tappeto del soggiorno, per rimanere in tema con la trama del film).
L'efferato quadretto familiare di Solondz presenta una gamma di personaggi politicamente scorretti, protagonisti che incarnano stereotipi negativi che la società statunitense non accetta. Il modello della happy family non può sopravvivere in un mondo popolato da un esercito di degenerati, depressi, disadattati, falliti e frustrati; dal momento in cui non è più possibile negare l’evidenza della putredine umana, ma soltanto da allora, si passa all’emarginazione, all’esclusione, essendo inammissibili il perdono e l’assoluzione. Solondz invece catapulta lo spettatore all’interno della scena, obbligandolo a guardare, impedendogli di voltarsi da un’altra parte. Grazie a una regia lucida, che non giudica e non ha pretese di analizzare cause ed effetti, il pubblico diventa quindi parte integrante della vicenda. È uno sfrontato invito a “non chiamarsi fuori”, ad affrontare la realtà senza chiudersi in un morboso silenzio (sintomo della presunzione che le nefandezze accadano sempre in casa altrui). L’arma in più del regista è l’ironia, che strappa sorrisi anche nei momenti più inquietanti, rivelando così il falso pudore dello spettatore medio.
Il ritratto proposto da Happiness della famiglia americana odierna (interpretata dai benestanti Jordan) è impietoso e non lascia speranze. Con ferocia Solondz squarcia il velo di conformismo che avvolge la vita dei protagonisti, per spogliarli della loro pellicola protettiva e costringerli inevitabilmente ad agire allo scoperto; poi li accompagna nel loro viaggio allucinante, li osserva sprofondare nella melma quotidiana. Sono esseri sgradevoli, che non possono suscitare compassione. Semmai una sincera rabbia. Le tre sorelle Joy, Trish ed Helen Jordan sono donne deluse: simboleggiano tipologie femminili differenti (l’ingenua e fallita; la casalinga realizzata; l’intellettuale altezzosa) ampiamente diffuse nel tessuto sociale contemporaneo. Nonostante le loro esistenze siamo parimenti insignificanti, Helen e Trish rivendicano con prepotenza il diritto di dispensare consigli. Solo la sfigata Joy, sempre insicura e alla costante ricerca dell’amore, fa eccezione, ma non per questo risulta meno irritante.
Si intuisce una totale mancanza di comunicazione tra le tre donne, radicalmente imprigionate nei loro ruoli, causata dal venir meno del loro legame affettivo. Diseducazione sentimentale probabilmente ereditata dai genitori Mona e Lenny, coppia oramai sfatta e inutile. Arricchiscono la panoramica dell'allegra famiglia il marito di Trish, Bill Maplewood, che si rivela pedofilo e stupratore di bambini, e il figlio Billy, ragazzino imbranato che insegue la sua personale idea di felicità: poter finalmente eiaculare per la prima volta. Non sono da meno, quanto a bassezze, Allen, il vicino di Helen, ossessionato dal sesso e autore di telefonate anonime durante le quali racconta oscenità, e Kristina, altra vicina di casa, che conserva nel congelatore i resti dell'uomo che l’ha violentata.
Degrado, insoddisfazione, mediocrità e noia caratterizzano i protagonisti di Happiness, squallide macchiette invischiate nel cliché ipocrita della famiglia borghese, la quale diventa un contenitore vuoto dove rifugiarsi per salvare le apparenze, sfuggire il decadimento morale e trovare un minimo di calore umano. La scena finale del film, che vede i Jordan al completo riuniti attorno a un tavolo, sottolinea l'incapacità dei presenti (tranne, forse, del giovane Billy) di invertire la rotta, atto necessario per costruire nuove e autentiche relazioni sociali.
La convinzione che il focolare domestico sia il luogo degli affetti e dei valori grazie ai quali la società può continuare a funzionare traballa da decenni, e già in telefilm degli anni Sessanta come The Munsters e La famiglia Addams i mostri venivano accolti in casa e addirittura fatti accomodare nel salotto buono. Tuttavia, gli Addams e i Munster rappresentano pur sempre dei modelli di riferimento positivi, quasi a voler suggerire che la mostruosità, quella vera, va cercata altrove: dove dimora la normalità, appunto.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: America Oggi


Scheda tecnica

Titolo originale: Happiness
Anno: Usa, 1998
Regia: Todd Solondz
Sceneggiatura: Todd Solondz
Fotografia: Maryse Alberti
Musiche: Robbie Kondor
Durata: 134'
Uscita in Italia: gennaio 1999
Interpreti principali: Jane Adams, Lara Flynn Boyle, Dylan Baker, Philip Seymour Hoffman, Ben Gazzara.

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