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CANNES 69 - Juste la fin du monde, di Xavier Dolan

29/6/2016

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All’interno della cinematografia di Xavier Dolan, regista prolifico e vitale, Juste la fin du monde si inserisce come un’opera apparentemente atipica, ridotta per durata e per impostazione drammaturgica. L’intenzione discorsiva descrive la scia prodotta dal ritorno a casa del protagonista Louis (Gaspard Ulliel) dal proprio auto-esilio decennale, con la missione dichiarata fin dalle prime battute di comunicare la sua morte imminente. Si dipana così un Kammerspiel tutto chiuso in se stesso, che pone l’accento sugli abbracci manca(n)ti, più che sulla narrazione specifica delle cause dell’allontanamento: Louis è il prodotto di una famiglia come tante, mai davvero disfunzionale, nella quale è facile riscontrare l’incomunicabilità degli e tra gli affetti. 
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Mommy, in uscita appena due anni fa, rappresentava evidentemente un punto e virgola nella sua produzione, una sorta di spartiacque simbolico su una carriera in perenne ascesa, tra messa a punto di poetica e capacità di limare i propri virtuosismi e la trasbordante propensione all’esuberanza di tecnica e sentimento. Il suo essere pop, qui, si vorrebbe del tutto fagocitato dalla restrizione degli spazi, e la stessa verbosità genetica e incessante si fa unico punto di vista focale, terreno ambiguo e irrisolto dove rintracciare i fondali dell’inconscio e il senso profondo del nido dal quale questi figli (Léa Seydoux, Vincent Cassel) faticano, in un modo o nell’altro, a prendere le distanze.  
Xavier Dolan, sempre, riusciva a giustificare le proprie nevrosi autoriali, le manie e le aperture disincantate che facevano (fanno) del suo cinema un atto puro di energia, di scrutamento dell’uomo in ogni sua paresi comportamentale ed emotiva. Riusciva laddove gli espedienti tecnici (slow-motion, cambio di formato, insistenti primi piani e irregolarità kitsch dei personaggi) esulavano dalla loro portata ammiccante per farsi polmone dell’interiorità, senza vie di mezzo, religiosamente. Juste la fin du monde è figlio di questa necessità dialettica, e tenta un compromesso strutturale tra slancio visivo e caratteri teatrali, provando a fondere una tematica a lui affine (i rapporti interpersonali) con un’impostazione testuale da palcoscenico.  
Il cinema di Dolan vuole farsi piccolo, vorrebbe nascondersi negli anfratti di un silenzio o di un corto circuito verbale, ridimensionando le parentesi d’evasione musicale o i flashback impalpabili e atmosferici, ma rimane incastrato nel testo, ansimando, ricercando una tensione tragica che troppo spesso si fa noia. E i caratteri umani, nonostante vengano abbracciati in tersi primi piani, sono figli d’un approccio di ancora troppo distacco, e scivolano via prima che possano sentirsi marchiati a fuoco, nobilitati da uno sguardo che è eppure sempre sorprendente.  
Il mutismo di Louis, che trova specchio nella sommessa Catherine (Marion Cotillard), si confronta con la coscienza scomoda e rabbiosa di Antoine (Vincent Cassel), che dà voce al malessere sotterraneo che s’intende lasciar sopito e che prepara alla sommossa conclusiva, suggellando un’impennata emotiva che riconsidera i precedenti minuti di stallo. La sensazione è di incompiutezza, di un ritmo sincopato e mancante, mentre Dolan si fa, forse per la prima volta davvero, regista europeo e francese, sabotando la propria autorialità in favore di un testo al quale sente di doversi attenere, tirando il freno a mano, ma non rinunciando a certi suoi stilemi.  Perciò, l’improvvisata danza in cucina tra madre e figlia sulla dance moldava e il sopralluogo di Louis all’interno della sua vecchia camera ricordano fin troppo quanto già avvenuto nella sua opera precedente, mentre l’incollarsi intimista ai volti (o il parziale piano-sequenza del dialogo tra fratelli in automobile, quasi tutto a camera fissa) non è sufficiente a sostenere quanto finora documentato: lo scandagliamento di un linguaggio autonomo che, a ogni episodio, trovava soluzioni e incastellature sempre originali. 
In questo senso, Juste la fin du monde segna una parziale battuta d’arresto all’interno di un percorso autonomo.  Ancora elaborata dalla fotografia pulita e satura di Andrè Turpin, più che mai, questa volta, la scena è inondata da orchestrazioni musicali che sovrastano il dialogo. Sempre e comunque l’occhio di Dolan rimane estasiato (ed estasiante) di fronte alla propria capienza e grandezza di ascolto, iper-sensibilità e trattamento di quanto narra, fluendo tra angoscia melodrammatica e una chiusa shock che tramortisce, ma che evita qualsiasi forma di giudizio. 
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Louis permane debole e impotente dinnanzi a una madre tenuta stretta da una cultura per nulla grandangolare; immobile e spaurito nel guardarsi dentro il fratello, non così diverso, che a medesime condizioni ha potuto solo diventare una gigantografia terribile di se stesso; distante e straniero per la sorella; forse solo complementare alla cognata Catherine, anch’ella dalla voce flebile e adattatasi ad ascoltare, rimanendo nell’angolo. Il riavvicinamento non può che essere monco, fittizio obbligatoriamente. La sua promessa di tornare, meglio e più di frequente, nient’altro che una “farsa”. Così si consuma il carcere casalingo nel quale Louis desiste, trascinato dal più scaltro Antoine che smuove il bollore coperto, irreprensibile davanti a una così decisa forma di condivisione terminale, sbagliata, di superficie. Dove l’amore è toccabile, solo vetusto di polvere, o arginato all’interno di una tubatura arrugginita.  
Dolan firma il suo film più monotono, e soprattutto più sconsolato, grondante di rassegnazione, nel quale non esiste libertà né positiva abnegazione.  Steve (Mommy) scappava, trionfante, da una vita di relegazione, nell’ammutinamento degli istinti; Tom (Tom à la ferme) tornava alla civiltà dopo aver affrontato il proprio demone rurale, come finalmente evacuato da un incubo a occhi aperti; il sacrificio sentimentale di Laurence (Laurence Anyways) avveniva in virtù di una conquistata identità di genere; Francis (J’ai tué ma mère) e Hubert (Les amours imaginaires) rimanevano, ciechi, attaccati alle loro dinamiche adolescenziali, con un ingenuo incanto a loro modo compiaciuto.  
Qui per la prima volta Dolan si accartoccia, dolente, in una sconfitta crepuscolare, passiva, dove si espleta quanto possibile, in un regime di disabilità che diversa non potrà mai essere. Il passerotto agonizzante, che sbatte contro ogni parete, è allora simbolo chiaro di un’opera che riflette, anche nella sua costruzione a tratti castrante e imperfetta, tutto l’autismo della consanguineità.  “La prossima volta saremo più preparati”, sospira la madre (Nathalie Baye), e insieme a lei, ci auspichiamo, un po’ anche il suo cinema.

Laura Delle Vedove

Sezioni di riferimento: Cannes 69, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale:  Juste la fin du monde
Anno: 2016
Regia: Xavier Dolan
Attori: Gaspard Ulliel, Vincent Cassel, Marion Cotillard, Lèa Seyxdoux, Nathalie Baye
Sceneggiatura: Xavier Dolan, basata sul dramma di Jean-Luc Lagarce 
Fotografia: Andrè Turpin
Montaggio: Xavier Dolan
Musiche: Gabriel Yared
Durata: 97’
Uscita italiana: 7 dicembre 2016

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CANNES 69 - Bacalaureat, di Cristian Mungiu

25/6/2016

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​Qualche volta si ha la fortuna di vedere un film praticamente perfetto. Un meccanismo calibrato sino alle più nascoste sfumature, dove ogni tessera del mosaico s'incastra nel tessuto generale con incantevole facilità. Un lavoro oliato con magistrale sapienza in ogni sua singola componente. Un racconto che avviluppa e ipnotizza, protetto dalle certezze di una messinscena da manuale. Accade raramente, certo, e in fondo è giusto che sia così; in caso contrario l'evento perderebbe la sua eccezionalità. Ma quando succede, non si può fare altro che restare in silenzio, rapiti e muti, ad ammirare la qualità e la compattezza delle immagini che transitano sullo schermo.

Con pochi film all'attivo Cristian Mungiu ha già conquistato un posto di assoluto rilievo nel panorama del cinema europeo e mondiale. Il suo primo lungometraggio, Occident (2002) gli ha permesso di farsi conoscere in ambito festivaliero. Con il secondo lavoro, 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni (2007) ha vinto la Palma d'Oro a Cannes. La terza opera, Oltre le colline (2012), ne ha riconfermato il talento e gli ha fruttato sulla Croisette il premio per la migliore sceneggiatura. La nuova creatura, Bacalaureat, ha invece quest'anno portato a casa un (meritatissimo) riconoscimento per la miglior regia, ex aequo con Olivier Assayas.
Il cinema di Mungiu è uno straordinario esempio di come ben rappresentare una realtà fosca ed ebbra di contraddizioni, quella di un paese, la Romania, dove le speranze di cambiamento sono state affossate per lasciare campo libero a un coacervo di disillusioni, connivenze, ricatti, povertà, favori sottobanco, plasmando un panorama desolante in cui ci si arrangia come si può, senza badare più di tanto all'onestà e alla rettitudine morale, e dove i tentativi di condurre una vita pulita sono spesso affossati da una realtà crudele che quasi non ammette la via della correttezza.
Bacalaureat disegna, con sopraffina lucidità, l'odissea di un padre di famiglia, Romeo, medico in una piccola cittadina, che cerca disperatamente di aiutare la figlia Eliza a ottenere la maturità con una media voto uguale e superiore al 9, fattore determinante affinché la ragazza possa ottenere la borsa di studio per frequentare l'università di Cambridge. Romeo ha da tempo pianificato il futuro della figlia: sogna per lei un avvenire di successo e soprattutto lontano dalle storture sociali della Romania, e in lei vede l'unica speranza per una via di fuga dalla corruzione dilagante, nonché l'unica possibilità per ottenere, pur indirettamente, ciò che lui e la moglie Magda non sono riusciti a realizzare, quando dopo un periodo di lontananza sono tornati in Romania con l'obiettivo di cambiare le cose, senza invece riuscire a cambiare un bel niente.
Eliza (Maria-Victoria Dragus) vuole molto bene al padre, ma al contempo ne è in qualche modo succube; non è convinta di volersi davvero trasferire in Inghilterra, preferirebbe andare a studiare a Cluj e restare vicina al fidanzato e agli amici; per Romeo, però, iscrivere la figlia in un'università prestigiosa e lontana dai confini rumeni è uno scopo primario, intoccabile e immodificabile, un bisogno impellente da perseguire con ogni mezzo. Le cose si complicano nel momento in cui, il giorno prima dell'inizio degli esami, la ragazza viene aggredita da un delinquente e si ritrova con un braccio ingessato, impedimento che non le può consentire di affrontare le prove scritte nello stato mentale e fisico giusto. 
Il rischio di un fallimento, o anche soltanto di un esito finale con voti non sufficienti per ottenere la borsa di studio, conduce Romeo (un ottimo Adrian Titieni) nei vicoli oscuri di una spirale senza uscita: l'uomo mette da parte le sue convinzioni morali, inizia a chiedere aiuto ad amici che lavorano in polizia, a politici di sua conoscenza, al preside della scuola; le persone contattate parlano tra loro, mettono in piedi uno squallido teatrino fatto di favori reciproci, deviano verso un balletto di compiacenze che poco alla volta scavalca i limiti della legalità. In loro si specchia la fisionomia di tutta la Romania, paese allo sfascio dove un dottore non ha uno stipendio sufficiente per mandare la figlia a studiare all'estero, dove le ragazze sono aggredite per strada con irrisoria facilità, dove gli appalti per i cantieri vengono vinti semplicemente “da chi li deve vincere”, dove i cani vagano senza controllo per le strade e le mazzette transitano da una mano all'altra come caramelle.
La battaglia di Romeo cozza con le difficoltà relazionali già insite nella sua vita; il rapporto con la moglie Magda è logoro e forse irrimediabilmente distrutto, tanto che l'uomo, da tempo, conduce una relazione fedifraga con una delle insegnanti di Eliza. Il protagonista del duro racconto di Mungiu è un cuore infelice, aggredito dai singulti della solitudine, appesantito da un passato che non gli ha dato ciò che avrebbe voluto e da un presente non in grado di offrire alcuna certezza. La lotta disperata per la figlia si trasforma in uno scontro, perdente, con la propria integrità spirituale, con il mantenimento di principi su cui si è interiormente lavorato per anni, con le perfide tentazioni di una società che nella glorificazione della disonestà ingrassa le proprie regole.
In Bacalaureat nessuno è senza peccato. Non ci sono eroi né antieroi. Non esistono buoni e cattivi. Esiste soltanto la realtà, degenerata e marcia, tirannica e malevola. 
Cristian Mungiu ci racconta una storia in fondo simile a tante altre. Ma lo fa con una padronanza del mezzo esemplare, edificando un palazzo solidissimo sin dalle sue fondamenta. Nessun elemento è mai fuori posto, nessuna sovrastruttura appesantisce la trama, nessun dialogo è impostato con toni sopra le righe. La direzione degli attori risulta impeccabile, la regia utilizza elementi simbolici (i flou) con la dovuta parsimonia, la scrittura è da manuale. Eppure, nella sua eccellenza, il film non risulta mai patinato o beato di sé. Al contrario: l'impeccabilità dell'insieme si pone al servizio della concretezza, generando un flusso poetico di primaria caratura, davanti al quale, per tornare alle parole di cui sopra, non si può che restare in muta ammirazione, accompagnando Romeo nel suo inclemente viaggio tra le paludi della Romania contemporanea.

Nota a margine: alle proiezioni in anteprima in alcune città, all'ingresso in sala è stato fornito a tutti gli spettatori un questionario, da restituire all'uscita, in cui si chiedeva di scegliere il titolo italiano del film, in vista della futura distribuzione, indicando la propria preferenza tra alcune opzioni possibili. I titoli proposti, tanto per cambiare, erano tutti banalissimi e fuorvianti. Uno di quelli (Un padre, una figlia) ha evidentemente raccolto il più alto numero di voti.
​Per l'ennesima volta, ormai rassegnati, ci torna così alla mente la solita considerazione di sempre: non è proprio possibile iniziare finalmente a distribuire i film rispettando semplicemente il loro titolo originale, o perlomeno evitare di alternarne il reale significato? A quanto pare, purtroppo, no.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Cannes 69, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Bacalaureat
Anno: 2016
Regia: Cristian Mungiu
Attori: Vlad Ivanov, Maria-Victoria Dragus, Ioachim Ciobanu, Adrian Titieni
Sceneggiatura: Cristian Mungiu
Montaggio: Mircea Olteanu
Durata: 128'
​Uscita italiana: 30 agosto 2016

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CANNES 69 - Neruda, di Pablo Larrain

21/6/2016

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​Al netto dell’incontro con l’ultima opera di Pablo Larraín, presentata quest’anno a Cannes in Quinzaine des Réalizateurs, pare ancor più evidente quanto già riscontrabile nella cinematografia dell’autore cileno: la peculiare capacità di riavvolgersi e proiettarsi sempre in maniera differente.
​Lo si evincerebbe, pur con un’impressione fugace, avvicinando la memoria al precedente El Club, laddove, nella giustapposizione, intenzioni drammatiche e stilistiche appaiono distanti, anche a così breve distanza. Spariscono le stasi, subentra il verbo incessante, a discapito di un’unità spazio-temporale rinnegata; ai campi frontali impietosi s’impongono i movimenti fluidi e avvolgenti; abbandonate le torbidezze, si accoglie il vezzo ludico. 
Più banalmente, Neruda si ritaglia una fisionomia propria, omogenea e percorribile, indossando una corazza cangiante e multiforme che brandisce le tonalità suadenti del noir, l’innesco western della forsennata ricerca quasi per nulla investigativa, la fattura sgargiante e vigorosa della commedia, il gusto amarognolo dell’introspezione umana. Larraín, morbido e asciutto insieme, fa del romanzo visivo un suggello praticabile. 
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A tirare i fili narrativi, lo sceneggiatore Guillermo Calderón, che incentra i suoi atti intorno alla figura del poeta cileno Pablo Neruda e al suo periodo di esilio obbligato nel 1948, dopo che, diventato senatore, si aprì la caccia anti-comunista dell’allora vigente governo (non casuale la comparsa-presagio del futuro dittatore Pinochet). Così si intagliano le vicissitudini storiche, sfoltite dai didascalismi biografici e modellate in una costruzione dalle movenze interamente finzionali, senza alcuna pretesa di aderenza al reale che possa distogliere dal gioco chiaroscurale del dipinto atmosferico, chiaramente filantropo. La politica è scenografia e vertice in regime di simultaneità, affinché questa possa farsi riflessione connettibile al senso ultimo dell’arte, e a come questa può (potrebbe) invaghirsi della contemporaneità e diventarne scettro impugnabile. 
Ma ciò che più si staglia, al di là del discorso politico (se non in senso lato, in quanto non sradicabile dall’ottica identitaria e culturale che lo permea), è il volere dell’opera di continuamente evadere dalla forma di racconto classica, per sfondare lentamente parentesi di surrealtà e il suo rimanervi, tuttavia, incollata, come se la necessità di perseguire la narrazione vincesse su un’eventuale reset che assecondi le tracce dell’onirico. 
Perciò Larraín stanzia in bilico, in maniera sorprendentemente coesa e coerente, assoggettando dialoghi caustici, ironici e talvolta nostalgici ai canoni di una struttura lineare, ma lo avvolge, senza balzare apertamente tra supposta veridicità dei fatti e incursioni apertamente fantasiose, nel campo visivo di un occhio straniato, come se il filtro virato (bluastro) del digitale appartenesse a quello univoco della prospettiva del fruitore: unica modalità intellegibile per guardare alla storia nazionale, cioè farne netta finzione. E lo fa al modo tutto peculiare (e invidiabile) di una mentalità sudamericana che spesso così sembra allacciarsi alla propria coscienza partitica e storica, allontanandosi dalle ovvietà drammatiche, istruttive o pedanti nelle quali, altrove, è facile inciampare. 
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Ancor più, quest’ultima fatica (che pare eppure assemblata con naturalissimo esprit) s’immerge volentieri in una costruzione senz’altro più scanzonata che nel passato, bollente di tracciati sarcastici e trascinata impetuosamente dall’ego totalizzante del poeta, che sovente non si esime dal farsi rockstar, assiduo frequentatore di bordelli, re delle proprie feste private e oratore dalla lingua sciolta che pur non perde mai il proprio contegno affabulatore. Ma Neruda, sorta di figura mitologica anche nella nebulosità delle sue circostanze di morte, non poteva che esser avvicinato con riserbo e distacco e, al contempo, pulsione morbosa tramite il portavoce, l’adepto, qui intelligentemente inseguitore e scagnozzo del presidente Videla, nonché poliziotto (Gael García Bernal), che in questa del tutto personale detection è proiezione (innamorata) del poeta e, al contempo, succube nella e per la ricerca: pretesto per la fuga, doppio disegnato dalla probabile necessità di espurgazione dello stesso Neruda, reo d’aver compartecipato al consolidamento di un potere che l’ha, infine, deluso. Ed è la sua voce off che seguiamo; forse la storia è più la sua (e la nostra), che quella intimamente collocata del protagonista fuggitivo. 
La fuga di Neruda è allora l’ultimo, estremo monito autoindotto dal poeta stesso affinché vi sia ancora genesi e scrittura, urgenza dell’arte nell’arte, laddove il “Canto generale”, figlio di quest’allontanamento dalla patria, invoca castigo politico per ogni repressione ma è, ancora, Arte che su tutto il resto s’impone (o che tutto il resto plasma). Al poliziotto pedina perfetta, cieca e ingenua di fronte alla sua subordinazione nel gioco intero della caccia alla taglia, non resta che aprire gli occhi (grazie alla delucidazione/rivelazione della moglie Delia) dinnanzi al suo esser elemento fittizio ed elucubrazione artistica cosciente. E per lui morire tra la neve, esaurita la sua funzionalità drammatica, sembra l’unica, pseudo tragica, blanda, assoluzione finale. 
Si rimane costantemente aggrappati al cinema di Larraín, qui maestro nell’impedire che il piacere della narrazione pura si perda tra gli eppure innumerevoli spazi bianchi di evasione, riverbero e trascendenza. A ribadire, silenziosamente, come ogni punto di vista che si vuole univoco sulla storia sarà sempre, di fatto, impotente e artificiale. La finzione, la creazione è l’unica via. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Cannes 69, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Neruda
Anno: 2016
Regia: Pablo Larraín
Sceneggiatura: Guillermo Calderón
Interpreti principali: Luis Gnecco, Gael García Bernal, Alfredo Castro
Fotografia: Sergio Armstrong
Musiche: Federico Jusid
Durata: 107’
​Uscita italiana: 13 ottobre 2016

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