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CANNES 68 - Our Little Sister, di Hirokazu Kore-Eda

24/6/2015

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Con la grazia e la sensibilità che da sempre contraddistinguono il suo sguardo, Hirokazu Kore-Eda sembra non riuscire ad affrancarsi mai del tutto dalle sue opere, impronte residuali di un inconscio affollato da fantasmi, sospesi in uno stato perenne di presenza/assenza. Già nel toccante e rarefatto After Life, tra le tante anime in attesa di compiere l'ultimo passo, si distingueva un eccentrico vecchietto, instancabile seduttore, immerso nei ricordi di una vita trascorsa tra piaceri del cibo e incessanti avventure amorose. 
Questa particolare figura di non protagonista ritorna in Our Little Sister, ultimo film dell'autore giapponese, storia declinata tutta al femminile di tre sorelle (Sachi, Yoshino, Chika), lasciate dal padre quindici anni prima per iniziare una nuova convivenza. In occasione del suo funerale, le ragazze fanno la conoscenza della sorellastra adolescente Suzu, che accetta volentieri l'invito di andare a vivere con loro nella cittadina di Kamakura. 
All'interno di uno schema narrativo lineare e scorrevole, Kore-Eda disegna un roseo ritratto familiare, dove però alla voracità dei momenti felici (molti dei quali legati alla quotidianità del cibo) si contrappongono l'ombra di un passato irrisolto e i conflitti interiori che inevitabilmente affiorano nel tempo. Gli uomini, quando presenti, alleviano con fatica i tormenti delle giovani protagoniste: nell'intimità di una notte trascorsa insieme, o tra i tavoli di un bar in riva al mare, ma sempre e volutamente tenuti a distanza, come l'occhio di chi li riprende. Intorno a questo  microcosmo c'è un paese fedele a tradizioni secolari, caldo e accogliente verso Suzu, che riesce a colmare così i vuoti emotivi, incantata dalla bellezza effimera dei sakura, con una punta di tristezza e commozione, richiamo alla caducità stessa dei fiori; un modo dolce per ricordare che ogni vita è destinata a finire. Sachi, la maggiore, si sforza invece nel tentativo di tenere saldo un equilibrio instabile, minacciato dal timore dell'abbandono e dalla morte, con cui ha a che fare ogni giorno in ospedale. 
In Our Little Sister il dramma di fondo e i risentimenti arrivano a palesarsi negli attimi in cui il confronto svela la vera natura dei sentimenti; laddove il dolore è un grido celato dal sorriso di Suzu, capace di riemergere dall'ebrezza di un'accidentale ubriacatura, da quel liquore di prugne invecchiato, diverso nel suo aspetto, ma che conserva ancora qualcosa di immutato. Come il legame tra Sachi e sua madre, tornata per l'occasione, anch'essa figura assente, restaurato proprio grazie all'alcolico donatole alla sua ripartenza. 
Anche se sacrificato sul piano registico, il film mette in scena un corpus di significati profondi, impressi nello splendore primaverile dei ciliegi, simbolo di rinascita e forza rigeneratrice di quei rapporti che, infine, bandiscono le sofferenze per ritrovare una dimensione felice, in cui l'amore è una ricchezza da custodire, l'eredità di un padre che in fondo continua a vivere nella memoria e nello spirito. 
Tratto dallo josei manga Unimachi Diary (titolo letterale, Diario di una città di mare) di Akimi Yoshida, Our Little Sister mantiene l'impostazione della graphic novel, ampliando tuttavia lo spettro della sua riflessione, circoscrivendo e includendo nel racconto le trasformazioni dei suoi abitanti e delle loro abitudini. Ripescando significazioni già mostrate nella sua filmografia, e restando in linea con temi cari al cinema giapponese, Kore-Eda, al pari del precedente Like Father Like Son, ribadisce l'importanza degli affetti più forti di qualsiasi parentela di sangue, rendendo palpabile sullo schermo un sogno ad occhi aperti. Un abbraccio malinconico, delicato, come una brezza.

Vincenzo Verderame

Sezione di riferimento: Cannes 68


Scheda tecnica

Titolo originale: Unimachi Diary
Anno: 2015
Durata: 128'
Regia: Hirokazu Kore-Eda
Soggetto: Akimi Yoshida
Sceneggiatura: Hirokazu Kore-Eda
Fotografia: Mikiya Takimodo
Musiche: Yôko Kanno
Attori principali: Haruka Ayase, Masami Nagasawa, Suzu Hirose, Kaho, Shinobu Otake, Lili Franky, Shinichi Tsutsumi

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CANNES 68 - Son of Saul, di László Nemes

17/6/2015

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Olocausto. Un termine che impietrisce, la traccia scritta di una delle pagine più ignominiose della storia umana, di fronte alla quale bisogna misurare la giusta temperatura emotiva e ricomporre la messa a fuoco del proprio sguardo. 
Lo sguardo inedito adottato da László Nemes ritaglia una superficie stringente, in cui la macchina da presa vortica tra i rumori affannandosi, sin da subito, alle spalle del sonderkommando Saul Ausländer, membro della squadra speciale incaricata di condurre gli ebrei appena arrivati al campo verso gli angusti spazi delle camere a gas. Ed è lì, nelle profondità di Auschwitz-Birkenau, che si celano le verità taciute, iscritte nei volti dei sonder, i Geheimnisträger, "portatori di segreti" come venivano classificati dai nazisti, deprivati d'ogni forma d'umanità, in silenzio a ridosso di quel muro di grida soffocate: la zona grigia di un passato oscuro, l'eco di un dolore descritto nel frammento d'apertura oltre i limiti della comprensione e della rappresentazione. 
I lunghi piani sequenza di Son of Saul (Il figlio di Saul) strattonano e immergono nella lunga e macabra marcia all'interno dei corridoi, tra le oscenità dell'industria della morte: tra le pile dei corpi ammassati e il calore opprimente dei forni crematori, le fosse comuni, i cumuli di cenere da smaltire, le valigie e i   beni razziati dagli stessi reclusi, e usati come merce di scambio per soddisfare l'avidità dei kapò. 
Tra le pieghe di quelli che sembrano veri e propri gironi infernali, l'apparizione di un ragazzino scampato per miracolo al gas, e immediatamente ucciso da un medico, riaccende negli occhi di un padre gli scampoli di quella forza di volontà repressa dopo quattro mesi di prigionia, conducendolo al disperato tentativo di ridare dignità e degna sepoltura a un corpo tra i milioni. 
Le violenze e gli orrori non vengono mai mostrati direttamente; al contrario, il peso di tutta l'opera si poggia sull'uso di un linguaggio febbrile che trascende la dimensione puramente visiva, enfatizzando invece il groviglio di suoni che domina il fuori campo, dove tra sussurri e fugaci scambi di parole prende sostanza la rivolta armata messa in atto dai Sonderkommando nel 1944. Nemes, con uno stile disarmante che lascia ammutoliti, riesce a raccontare piccole storie dentro quella più grande, intrappolata sullo sfondo sfocato dell'immagine in 4:3. Nel contempo costringe lo spettatore a osservare da vicino l'ossessione che abita il viso di Saul, cosciente di essere un morto in sospeso, nell'illusione che la lunga corsa tra le foreste circostanti il lager possa essere l'atto risolutivo di un tragitto salvifico, l'apparizione di un sorriso fanciullesco dimenticato. È la metafora di un'età innocente capace di sfuggire, tra il silenzio degli alberi, a un destino già segnato, marchiato da quella grande X rossa cucita sul dorso della giacca del protagonista. 
Il film d'esordio del trentottenne ungherese, vincitore del Gran Prix a Cannes, raggiunge l'apice di una folgorazione di rara intensità. Il dramma della Shoah, ampiamente trattato da opere monumentali come l'omonimo documentario di Claude Lanzmann, diventa oggi il perno morale intorno cui costruire un rinnovato pensiero critico, capace di svelare l'ambiguità celata nei controracconti conosciuti come I rotoli di Auschwitz, che il regista impressiona sulla pellicola sostanziando un universo instabile e insicuro, un limbo dove si agitano fantasmi a metà fra vittime e carnefici. Son of Saul è un film che trova, in una forse inconsapevole ispirazione, l'occasione di narrare la storia del cinema, muovendosi da un vissuto personale (quello di Nemes, che ha avuto parte della famiglia assassinata) e oltrepassando la soglia di quella che, in futuro, apparirà come una mirabile esperienza estetica e una preziosa testimonianza cinematografica.

Vincenzo Verderame

Sezione di riferimento: Cannes 68, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Saul Fia
Anno: 2015
Durata: 107'
Regia: László Nemes
Sceneggiatura: László Nemes, Clara Royer
Fotografia: Mátyás Erdély
Musiche: László Melis
Attori principali: Géza Röhrig, Levente Molnár, Urs Rechn
​Uscita italiana: 21 gennaio 2016

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    CANNES 68

    Il programma ufficiale
    Mia Madre
    Il racconto dei racconti
    Youth - La giovinezza
    Son of Saul
    Our Little Sister
    ​La loi du marché
    Dheepan
    Trois souvenirs de ma jeunesse
    L'elenco dei premiati


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